foto da Ambiente TrentinoPiccoli borghi antichidi Lara Zavatteri
Ci sono luoghi in Trentino che parlano di un tempo ormai passato e che non tornerà più. Luoghi che hanno visto per secoli il mutare delle stagioni insieme alle fatiche dei contadini, dei pastori e della gente abituata a non avere nulla senza il sudore della fronte. Posti spesso in quota, difficili da raggiungere e disagevoli per pensare di abitarci stabilmente. In via di abbandono o in faticoso mantenimento, i piccoli borghi di montagna del Trentino stanno perdendo identità e memoria. Esiste un'alternativa al declino?
Solo pochi decenni or sono in molti non avevano ancora abbandonato la montagna trentina, nonostante le difficoltà, i sacrifici che comporta il vivere isolati e lontano dai centri urbani. Oggi non è più così. Lo spopolamento dei piccoli paesi è un tema di scottante attualità e chi decide di non chiudere l’uscio della propria casetta deve tenere in conto la totale assenza di servizi, la lontananza dai servizi e dai contatti sociali, difficoltà che si accentuano se, come spesso accade, chi è rimasto è gente anziana. Ma anche per un giovane che ama il proprio paese, per quanto isolato e privo di servizi e che desidera restarci, sussistono grossi problemi. Daniele Gosetti è infatti un giovane residente a
Montes, frazione del Comune di Malé in val di Sole, che condivide l’isolamento con
Bolentina, altro piccolo borgo del capoluogo solandro, con il quale Montes ha in comune la bella chiesa di San Valentino.
Attualmente Montes (1.150 metri) conta 18 abitanti, contro gli oltre 150 registrati negli anni Cinquanta, prima della fuga alla ricerca di lavoro. “Ora è un paesino quasi disabitato cui non è data altra possibilità. Io ci sono praticamente nato e non disdegnerei poterci rimanere, uno dei pochi direi; il mio problema è che non riesco ad averne la possibilità, perché Montes è uno dei pochi paesi della val di Sole che non ha una zona di espansione; è dall’anno 2000 che faccio richiesta in vista del nuovo PRG comunale, ho usufruito come tanti altri delle osservazioni nel 2004 e nel 2008 ma la mia osservazione non è stata accolta” spiega Daniele, secondo cui bisognerebbe pensare a garantire ai giovani la possibilità di mantenere le proprie origini. “Continuo a pensare che si continua a predicare che bisogna mantenere le proprie tradizioni, le realtà rurali, è persino stato scritto di buon gusto un articolo su una signora che è tornata dagli USA per ritrovare le proprie origini a Bolentina (articolo su Norma Niemann pubblicato su AT, ndr) ed è stata accolta come una cosa molto gradita, ma allora perché non si inizia innanzitutto a dare la possibilità ai giovani di mantenerle le proprie origini. Speravo inoltre che con l’avvento della riforma della legge urbanistica dell'assessore Gilmozzi si tenesse conto di più delle richieste effettuate per la realizzazione della propria prima casa piuttosto che continuare ad assegnare terreni edificabili a ruota libera, non conoscendo effettivamente se poi sarà utilizzato per prima casa o per semplice speculazione. Concludendo, ho ancora una speranza, l’aggiornamento del PRG alla Legge Gilmozzi stessa, confido nel buon senso”. Il Piano è quindi entrato in vigore ignorando la sua osservazione, perché, secondo la giustificazione dell’amministrazione, non è pertinente non essendo di pubblica utilità ma per Gosetti altre simili invece sono state accolte. Inoltre, gli è stato risposto che prima bisogna risistemare il centro storico. “Io mi chiedo se devo costringere con la forza le persone a vendermi qualcosa, visto che non ne hanno intenzione, ed io non posseggo alcun fabbricato”. Insomma benché si parli molto dell’abbandono della montagna specialmente da parte dei giovani, quando invece la gioventù desidera rimanere si trova di fronte a difficoltà di questo tipo.
In Trentino esistono poi località ormai abbandonate, paesi come appunto Montes che contano pochi residenti, altri ancora che restano solo nella memoria perché cancellati da qualche evento drammatico che ha segnato la storia del Trentino. Molteplici le cause dell’abbandono: l’emigrazione, la morte di attività secolari come l’agricoltura e l’allevamento o semplicemente la volontà dei residenti di trasferirsi altrove, in un luogo dotato di servizi e comodità preclusi nei borghi più sperduti. Si può tentare di fare una piccola mappa che esemplifica questa situazione.
In val di Non due esempi si possono trovare nel comune di Ton. Nella piccola località di
Ceramica attualmente vivono solamente tre nuclei familiari mentre recentemente non è più in funzione nemmeno la fabbrica Molinà che da anni produceva tegole in cotto. Resta l’edificio che una ventina di anni fa costituiva l’hotel Sporting, chiuso da due decenni e le poche persone che continuano a vivere in questa minuscola zona. Sempre a Ton la località di
Comino, compreso nel nucleo di
Bastianelli a sua volta incluso nella frazione di Masi, oggi risulta di fatto disabitata. L’abbandono qui è cosa recente. Infatti, fino a circa tre o quattro anni fa qualcuno ancora apriva le vecchie case del borgo mentre ora le porte sono chiusi, le case in parte vendute a turisti che, solamente per qualche settimana in estate, potranno utilizzarle. Si tratta però di antichi casolari che necessitano di riparazioni e interventi di restauro non ancora iniziati, quindi ancora a lungo Comini non vedrà anima viva.
In val di Sole si può citare
Mezzana con la località l
e Plazze, abbandonata negli anni Ottanta, anche se i proprietari nella bella stagione (qualcuno si è attrezzato anche per restarci qualche giorno in inverno) ritornano ad abitarci periodicamente. “Plazze” è un toponimo molto diffuso in diverse valli: nella stessa val di Sole lo si ritrova a Croviana, dove è possibile seguire un itinerario alla scoperta delle piante del bosco, in val di Non a Dermulo si trova invece in riva al lago di Santa Giustina. A Mezzana, abbarbicato sopra il paese e circondato da un panorama che abbraccia le cime dell’alta valle, esiste ancora questo piccolissimo borgo che ha segnato la storia di diverse famiglie. Niente più che due casette con prati e orti che dista circa mezz’ora di cammino dal paese, località ora disabitata ma che per secoli ha ospitato un gruppo di famiglie. La strada per le Plazze parte dalla parte alta di Mezzana, attraversa il rio Valspona e prosegue interamente in salita con diversi tornanti prima di aprirsi un po’ sullo spiazzo dove sono ubicate le due casette. In primavera ed estate il luogo è meta di escursioni, sia per lo scenario che comprende vedute di Mezzana, Termenago, Pellizzano, Ossana sia perché la strada prosegue permettendo di raggiungere il paesino di Menas. Ma la storia delle Plazze è stata soprattutto una storia di fatica e di sacrifici messi in atto da persone che, pur di non lasciare quel luogo, sopportavano estenuanti marce verso il fondovalle. In quell’esiguo spazio vivevano alcune famiglie praticamente senza alcun servizio indispensabile nella vita di tutti i giorni, dedite all’agricoltura ed all’allevamento, attività svolte sempre con la necessità di recarsi giù in paese. Basti pensare che il latte prodotto dalle mucche allevate alle Plazze doveva essere trasportato dai contadini, in recipienti portati a spalla, fino al caseificio di Mezzana, ovviamente con qualunque tempo e così accedeva per l’acquisto e l’eventuale vendita di prodotti, per tutto ciò che concerneva l’esercizio dell’agricoltura e le necessità di ogni giorno. I bambini nati alle Plazze, di buon’ora, si alzavano per raggiungere la scuola e frequentare le lezioni a Mezzana insieme ai coetanei che però necessitavano di pochi minuti per essere preseti al suono della campanella. I piccoli delle Plazze invece dovevano affrontare la ripida stradina aggiungendo, oltre alle ore di lezione, una buona mezz’ora di marcia sia all’andata sia al ritorno. I residenti sapevano bene a cosa andavano incontro: alle Plazze non si trovava nulla a parte le case, i prati da falciare e gli orti che contribuivano al sostentamento della famiglia. Non è mai esistito un piccolo spaccio per rifornirsi almeno dei beni di prima necessità, così se dopo essere scesi in paese ci si accorgeva di aver dimenticato qualcosa si doveva rifare da capo l’intero percorso. Non parliamo poi dell’assistenza di tipo sanitario. In passato la figura del medico non era prevista neppure nel paese di Mezzana ma arrivava direttamente dall’alta valle e precisamente da Cusiano. Per arrivare alle Plazze in sella al suo cavallo poteva impiegare anche delle ore se la strada era ostruita, ad esempio, dalla neve. Se insomma si presentava un’emergenza era meglio raccomandare l’anima a Dio. Peraltro gli stessi abitanti delle Plazze curavano la manutenzione della via d’accesso al “paesino” dopo le abbondanti nevicate che rischiavano di isolare la zona privando gli abitanti del collegamento con Mezzana. Nonostante le difficoltà, per secoli un gruppo di famiglie, precisamente più o meno quelli che a Mezzana, oggi, portano il cognome Pangrazzi (alcuni detti appunto “Plazari” per la loro zona d’origine) ostinatamente hanno continuato a vivere lassù, quando ancora non si parlava del pericolo di spopolamento della montagna. Le casette, costruite con materiali semplici quali pietra e legno, hanno accolto gli abitanti fino agli anni Ottanta, in seguito la gente delle Plazze ha preso casa a Mezzana ma torna periodicamente a visitare la località.
Oggi la strada d’accesso è percorribile con i mezzi adatti e in estate di tanto in tanto il luogo ospita gli eredi di coloro che lassù trascorsero l’esistenza. Per il resto dell’anno le casette restano mute con l’unica compagnia della natura circostante, custodi silenziosi del passato di una microscopica comunità.
Sempre a Mezzana anche zone come
Moresana,
Daial,
Farini,
Mezol sono silenziose da decenni mentre la frazione di
Roncio conta solo diciassette persone e non esiste nessun tipo di servizio. Quest’ultimo d’estate appena s’intravede nel fitto del bosco. Roncio (1045 m) sorge sopra Mezzana, e spopolatosi un po’ alla volta, un tempo era un centro abitato efficiente, dove la vita degli abitanti seguiva il ritmo dei lavori nei campi. Nei prati e nei campi, oggi pressoché abbandonati, crescevano lino, segale, orzo, canapa, si seminavano ortaggi (in particolare patate, base dell’alimentazione) e pascolavano mucche e pecore. La gente viveva grazie al raccolto e all’allevamento, ma per i beni di prima necessità, i servizi sanitari, la scuola, doveva recarsi a Mezzana. Attualmente gli edifici sono una trentina, suddivisi in case, appartamenti residenziali, masi (alcuni non abitabili) e la chiesa. Solo nel 1940 i ragazzi di Roncio cominciarono a frequentare le lezioni nel proprio paese. Prima si recavano a Mezzana, percorrendo tre chilometri a piedi, due volte al giorno, mattina e pomeriggio e durante il periodo invernale (il più duro) alla scuola serale. A fungere da edificio scolastico era l’ex canonica, che ospitava ben cinque classi. Al termine degli anni Sessanta, con un numero sempre minore di scolari, la scuola fu chiusa definitivamente. La chiesa è stata oggetto di restauro negli anni scorsi, salvando così un piccolo patrimonio artistico che altrimenti rischiava di andare perduto. Costruito nel 1951, l’edificio è dedicato a San Romedio e Santa Barbara. Di modeste dimensioni, l’altare ha una pala raffigurante i santi, opera di Agostino Gosetti, mentre sulle pareti sono esposti i quadri dei dalla Torre. In sacrestia si trova un quadro ad olio, mentre l’esterno ricalca perfettamente lo stile rustico del luogo. Venerata in valle, santa Barbara è la protettrice in caso di temporali, fulmini, saette, per cui il sacrestano era incaricato di suonare la campana, in segno di pericolo.
Fino ai primi anni del Novecento il sacerdote era presente in paese, perciò la Messa veniva celebrata ogni giorno. In seguito allo spopolamento invece fu il parroco di Mezzana ad occuparsene, recandosi sul posto in pochissime occasioni: il 4 dicembre ed il 15 gennaio (celebrazione dei patroni) per le rogazioni e la prima domenica dopo l’Ascensione. La chiesa cominciò così a cadere in rovina, anche per la mancanza di manutenzione e gli effetti del tempo. Si ricordano alcuni interventi risalenti agli anni ’50, quando fu ricostruito il tetto che minacciava di crollare, mentre solo negli anni scorsi si è concretizzato il progetto di recupero ad opera dell’architetto Paolo Mayr. A tutt’oggi a Roncio non esiste alcun tipo di servizio e i pochi abitanti fanno riferimento al fondovalle per qualsiasi esigenza. Non s’intravede insomma un qualche tipo di sviluppo per il piccolo paesino.
Altra zona ormai quasi disabitata sono i
Masi sparsi di Sover in valle dell’Adige che tutti insieme contano appena quindici abitanti o
Vera e
Insom in val di Fassa. Ad Insom le case furono distrutte durante la prima guerra mondiale, altre crollarono e ora resta solo un maso: a Vera, a 1.673 metri si conta solo un abitante. Nella vicina val di Fiemme sono una decina i residenti della piccola frazione di
Stramentizzo Vecchio compreso nel comune di Castello Molina di Fiemme. Un numero irrisorio se si considera che in quasi tutti i villaggi trentini ormai quasi scomparsi la popolazione era formata da un congruo nucleo di famiglie e a volte nelle località più popolose erano sorte scuole per i bambini poi chiuse definitivamente.
Ancora in val di
Fiemme da ricordare che i
borghi di Ischiazza e Maso furono invece spazzati via durante l’alluvione del 1966. Dopo il disastro fu costruito allora un nuovo agglomerato che ovviamente non conservava nulla della tradizione e della storia di quello vecchio, scomparso per la piena dell’Avisio. Gli abitanti si adeguarono a vivere nel paese di
Villaggio in Valfloriana, sradicati all’improvviso dal loro mondo. Nuclei quasi disabitati si trovano anche nelle valli Giudicarie. Oggi in tre frazioni di Bleggio Inferiore,
Val d’Algone,
Biè e
Tignerone restano rispettivamente tre, quindici e tredici abitanti. Al Villaggio
Prosnavalle di Pieve di Bono se ne contano sei ed altrettanti a
Riccomassimo a Storo. Qui un caso di una località che ha saputo inventare nuovamente se stessa è quella di Faserno.
Il passaggio dalla civiltà contadina a quella caratterizzata dallo sviluppo industriale nelle zone di Darzo e Storo nelle valli Giudicarie avvenne nel secondo dopoguerra. Le nuove industrie che sorsero in quegli anni favorirono, infatti, un abbandono della montagna abitata da secoli dai contadini. La storia di queste zone nelle Giudicarie ricorda che accanto all’attività di agricoltura ed allevamento, all’incirca dalla fine del Diciannovesimo secolo, era praticata l’estrazione della barite sulle montagne dove si erano costruiti degli stabilimenti adatti allo scopo. Per la maggior parte i contadini, sulle montagne di Darzo e Storo, fino ai primi anni Cinquanta continuarono a portare avanti un mestiere vecchio di generazioni ed a scandire i lavori seguendo il ritmo delle stagioni, un modo di vivere che fu interrotto negli anni successivi alla seconda guerra mondiale quando il boom economico e le industrie interessarono anche questi luoghi. Grazie ai cantieri per la costruzione di centrali idroelettriche e dighe sul Chiese, fabbriche emigrate in Trentino dalla Lombardia, industrie metalmeccaniche e la creazione di nuove zone artigianali, la montagna fu a poco a poco abbandonata e i contadini, lasciati rastrello e vanga, si trasformarono rapidamente in operai. Lo sviluppo fu successivamente favorito dalla costruzione in loco di zone industriali e artigianali.
Avvenne così che sulla montagna di Storo in quegli anni i
fienili di Faserno posti a 1.436 metri d’altitudine, adibiti alla raccolta del fieno per gli animali allevati, furono chiusi: non praticando l’allevamento non servivano più. Quel pezzo di montagna, dagli anni Cinquanta non più frequentato da molti dei contadini delle Giudicarie, sembrava destinato ad un lento ed inesorabile degrado. Invece, un decennio dopo l’arrivo dell’industrializzazione, abitanti del luogo decisero di ristrutturare i fienili e creare nuove abitazioni per se stessi o per turisti interessati a godere di un panorama che spazia da Storo fino al lago d’Idro. In questo modo con la volontà dei proprietari la zona si è sviluppata da un punto di vista turistico, anche in ambito ricreativo-religioso.
Grazie alla ristrutturazione dei fienili, a Faserno nel corso degli anni sono nate abitazioni per il tempo libero di famiglie residenti a Storo che raggiungono la montagna nei fine settimana e nuove case per turisti che scelgono un ambiente a contatto con la natura per le vacanze. Una di queste esperienze, che coniuga la vacanza al ritiro spirituale per i ragazzi, è la “Casa alpina don Vigilio Flabbi” che ogni estate ospita ragazzi delle colonie. La proprietà è della parrocchia di San Floriano di Storo e la gestione è affidata al locale oratorio. Don Vigilio Flabbi, parroco di Storo dal 1938 al 1963, nel ’62 ebbe l’idea di creare a Faserno una struttura consona ad ospitare i più giovani e per questo la casa porta il suo nome. Un’idea semplice che però ha fatto sì che oltre quarant’anni fa la zona tornasse a popolarsi. Faserno è raggiungibile sia d’estate sia d’inverno anche attraverso suggestivi sentieri a piedi, sci o mountain bike mentre il Comitato per la tutela e la promozione della montagna di Faserno, dagli anni Novanta, ha rivisto e reso sicura la strada in località Ca’ Rossa che collega Storo a Faserno, oltre a curare opere di manutenzione mirate a valorizzare il luogo. La zona è meta di escursioni anche verso le malghe presenti sul territorio, tra cui malga Vacil. Un esempio di come la montagna, in Trentino, ha saputo trasformarsi e per questo non morire.
In Vallagarina a
San Leonardo di Avio sono solo in dieci e a
San Valentino di Brentonico undici. Infine in alta Valsugana e precisamente nelle località minori di Centa San Nicolò quattordici persone a
Menegòi, a
Tiécheri,
Stauderi e
Fontani sedici in ogni zona mentre solo tre in località
Buratti, sei a
Piccoli undici ciascuno a
Òseli e
Rocchetti, tutti paesi di Lavarone. Uno solo a
Tassàineri a Palù del Fersina e sette nel vicino
Tolleri.
Chi ancora abita, nonostante tutto, questi luoghi quasi sempre si è adeguato ai tempi e le case che una volta servivano ai pastori ed agli allevatori di bestiame ora sono state trasformate in moderni edifici oppure ceduti ad altri e diventati seconde case per le ferie. I piccoli borghi antichi del Trentino perdono così la vera essenza del loro passato, ma è bene chiedersi se da questo inevitabile declino possa emergere in futuro qualche possibilità nuova per l’utilizzo di queste frazioni e del loro territorio.
In effetti le nuove tecnologie, in altre parti d’Europa e del mondo, hanno permesso il recupero di edifici storici isolati in aree montane, a scopo abitativo o di turismo “alternativo”, a contatto con la natura.
da
http://www.ambientetrentino.it/urbancenter-2-Piccoli_borghi_antichi.html