Autore Topic: La valanga di Passo Cirelle raccontata da chi c'era  (Letto 1562 volte)

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La valanga nei pressi di Passo Cirelle (foto di Marina Todisco)

Testo lungo ma da leggere, piuttosto istruttivo degli stati d'animo che ti prendono quanto cade la valanga (provocata) e qualcuno rimane sotto...
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Cronaca di una valanga vissuta
di Marina Todisco
 
Un racconto degli avvenimenti al Passo delle Cirelle di sabato 5 gennaio 2013

Mentre riguardo le foto a casa, ce n’è una senza senso che inquadra da vicino non capisco cosa, della neve forse? Ricordo che stavo immortalando uno scatto del panorama della dolce vallata ascendente del Fuciade sopra il passo San Pellegrino, appena raggiunta la selletta che da lì introduce nella Buca di Tasca.

Senza accorgermene, una forte raffica di vento dal nulla mi ha letteralmente buttata giù, di lato. Sugli sci, con le mani impegnate a far foto, non ho potuto opporre resistenza e, comunque, non ho nemmeno fatto in tempo a capire cosa succedeva che già ero in terra. E’ passato forse un minuto prima che potessi rialzarmi ed ho debitamente aspettato che la raffica si esaurisse, visto che ero sul bordo di un pendio simpaticamente ripido che, con un’altra bella spinta forza sette tipo quella, avrei raggiunto in volo carpiato, scivolando giù, a pelle di leopardo, per una cinquantina di metri almeno.

La giornata era bellissima, soleggiata, calda per essere gennaio, a parte quel vento da nord traditore, in rinforzo. La nostra meta era il Passo delle Cirelle in primis e, a seconda delle condizioni che avremmo verificato meglio strada facendo, l’ambita traversata fino giù ad Alba di Canazei. Sarebbe stato un itinerario bellissimo mai troppo frequentato, anche se, questo sabato, avevamo la compagnia di almeno altri tre gruppetti di scialpinisti come noi.

Personalmente sarei stata già appagata nel raggiungere il passo. Negli anni, Cirelle, è diventato un miraggio a cominciare da un’estate, in cui traversando dalle cime d’Ombretta al Sasso Vernale, sulla via del ritorno abbiamo riposizionato in piedi, sostenuto da un ometto di sassi, il cartello che ne indicava la direzione, abbattuto dalle intemperie. La mia proposta era subito stata di salire anche fino al passo, ma era esattamente nella direzione e nell’intenzione opposta, ovvero salire ancora invece di scendere; mentre i miei compagni di gita erano desiderosi di tornare a casa. Tentai di raggiungerlo almeno altre tre volte in invernale, ma l’itinerario sembrava beffarsi di me: quando non c’erano le condizioni, quando un inconveniente all’attrezzatura di un compagno di gita, fino all’ultima volta quando, durante la sosta al rifugio Contrin, le vesciche sanguinanti ai piedi di Fernando hanno firmato la resa.



Finalmente una buona opportunità per salire su al passo delle Cirelle sabato, avevo preso accordi con Nicola, questa era la volta buona, mi dicevo, tutti convinti ed intenzionati a raggiungere la meta, saremmo stati in quattro includendo anche Fernando e Sergio.

Sembrerà ridicolo ma la notte precedente ho dormito un sonno agitato da incubi, sogni assurdi ed inquietanti, senza capo ne coda, di quelli che all’alba ringrazi quella trillante radiosveglia dittatrice di importi di alzarti.

Naturalmente, una volta sulle pelli, in quel panorama mozzafiato, con quella temperatura gradevole, al riparo dal vento, aggiungendo il ritmo blando di progressione in salita dettato dalla nuova regola antivesciche di Fernando che ci permetteva anche di dilettarci in artistici scatti fotografici, dubbi e perplessità svaniscono. Così procedevamo tranquilli fino alla Buca di Tasca.

Fu la forte raffica successiva a quella che mi aveva stesa che mi fece affrettare, riporre la macchina fotografica in tasca e spostarmi da lì. Raggiunsi Nicola e Sergio, mentre Fernando stava già arrivando poco dietro. Il vento era forte e mi sferzava la faccia e il corpo con dei taglienti pezzettini di neve trasportata. Abbassai lo sguardo giù per un attimo quasi a proteggermi la faccia mentre salivo e quando lo rialzai vidi uno sbuffo di neve che scendeva piano da sopra un salto di rocce. Pensai al vento che ne trasportava i pezzi, avrebbe smesso, ma la neve che cadeva divenne una cascatella incanalata in un punto, poi una cascata, poi varie cascate dai salti di roccia proprio sopra di noi. Sembrava che la neve cadesse lentamente –ma forse è solo come l’ho vissuta– mentre ormai inondava già parte del pendio superiore, dove saremmo dovuti passare, dove un gruppo era appena passato, dove ora non c’era nessuno. Pensavo che si sarebbe fermata, sembrava così lenta, sì, ora si sarebbe fermata, ma inesorabilmente la neve saltava i settanta metri di roccia di un’ampia parete e continua a cadere. Ce n’era tanta, sempre di più. Ci precedeva una coppia di scialpinisti, a cento metri di distanza i quali, inizialmente attoniti come noi,  cominciarono a capire di essere sulla traiettoria della massa che come un fiume in piena ormai si muoveva verso di loro e verso di noi. Cercarono di indietreggiare, ma troppo tardi avevano valutato e vennero travolti sotto i nostri occhi.

Come dalle varie simulazioni fatte, volevo pensare a cosa fare, ma tenni solo gli occhi incollati sui due, si erano avvicinati fra di loro nell’esser trasportati giù ed ora ne vedevo uno solo, il ragazzo, mentre la ragazza era sparita, lì, in quel punto. Lo memorizzai o almeno ci provai.

Noi ci trovavamo ora leggermente più in alto, sul lato sotto le rocce e la neve prese a scendere più centrale, come incanalandosi, trasportando il ragazzo, l’unico che ancora vedevo, verso il basso, ma la velocità pareva diminuire, visto che la Buca di Tasca ha effettivamente poi un piccolo avvallamento a conca sotto e la massa di neve rallentò.

Ero immobile, il cervello a mille, non mi accorgevo che la neve stava arrivando anche a noi? Sembrava così lenta e, come un’onda del mare che lambisce quasi l’asciugamano per poi ritirarsi, a sua completa discrezione, l’enorme massa di neve smise di muoversi; il suo fronte laterale era ad una decina di metri da noi.

Il ragazzo aveva galleggiato, la ragazza non si vedeva, urlai: -La ragazza!

Come se mi rispondesse, sentii urlare, voce di donna, viva, spaventata, forse qualche osso rotto, ma facile, ok, mi diceva la mia mente lenta e veloce al contempo, aveva anche già valutato che noi quattro ne eravamo fuori, che il ragazzo si era alzato, che cercava di tirare fuori l’amica, proprio lì a fianco a lui, cercavo di capire se ci sarebbe stato un possibile contrattacco nevoso dai pendii di fronte, ma forse no, non saprei dire comunque, sembra improbabile, dubbi su dubbi al vedere il pendio invaso ora da blocchi di neve e di ghiaccio frantumati solo in parte dal salto oltre le rocce. Sul pendio avevo chiaramente visto solo un totale di sei persone quando era cominciato tutto, altri erano già saliti su verso destra, proprio sopra di noi dove proseguiva l’itinerario verso il Passo delle Cirelle, quindi non c’era più nessuno, giusto, non doveva esserci nessuno la sotto.

La ragazza urlava, l’amico era in piedi, ma forse lei era semisepolta, bisognava dargli una mano a scavare? Sergio e Nicola scesero per dare una mano con la pala. Io ero sempre immobile, sulla visione ad altissima definizione dell’enorme valanga a lastroni che si era pietosamente arrestata senza lambire i nostri sci, anche se la mente funzionava, in quei momenti non mi mossi, me ne ricordo bene, l’unica cosa che feci fu estrarre il cellulare. Urlai nuovamente, chiedendo se serviva l’elicottero, se c’erano feriti. Non ottenendo risposta e visto che non avevano nemmeno iniziato a scavare, –chi armeggiando penso ancora nello zaino, chi montando le pale e chissà se avevano sentito la mia voce, visto il vento a raffiche di cui lì per lì mi ero anche scordata, malgrado fosse tagliente­–, decisi di fare il numero. Non feci il 118 come da regola, avevo il numero di cellulare di un riferimento del soccorso della zona, un cellulare, pensai di chiamare prima lì e subito la risposta.

-Pronto?

-Sono Marina Todisco. Siamo sotto il passo delle Cirelle, lato San Pellegrino, nella Buca di Tasca, è caduta una valanga. Stiamo bene, nessuno è rimasto sepolto, solo una ragazza forse è ferita.

-Riesci ad accertarti di come sta?

-Sì, scendo. Aspetta un attimo…

-Aspetto in linea!

Con gli sci ancora con le pelli, con il cellulare in una mano, con le racchette nell’altra, con l’ennesima raffica di vento che quasi mi tirava giù, scesi fino alla fine del fronte, dove erano stati trascinati il ragazzo e la ragazza. Chiesi come stavano, mi dissero che stavano bene e che, anche secondo loro, non c’era nessun’altro sotto, allora non c’era bisogno dell’elicottero, quasi convenimmo, in dubbio.

-Stiamo tutti bene. Per noi non c’è bisogno di trasporto in elicottero. Eravamo solo noi su questo pendio, altri li ho visti salire, ma non erano su questo pendio.

-Per favore, ricontattami subito se hai aggiornamenti.

La ragazza si è calmata, non strilla più, è quasi libera dalla morsa nella neve, allora gli sci sono della ragazza?

-Quali sci? Quegli sci, lassù in valanga.

-No, non sono i miei, i miei sono qui, vedi?

Allora di chi sono?

-Mettete l’artva in ricezione!

Urlano.

-Tutti! Mettete l’artva in ricezione!

Sergio urla e parte a piedi con il suo artva per la ricerca, anche Fernando parte a piedi. Ridigito lo stesso numero:

-Contrordine, ci sono degli sci. Non sono di nessuno di noi. Stiamo già facendo la ricerca con l’artva.

-Ok. Ti richiamo.

Forse il soccorritore ha aggiunto altro, non ricordo. Sono partita anch’io con l’artva in ricezione dal basso, nessun segnale, frustrante, ho gli sci ai piedi con le pelli, non li ho mai tolti, vado più forte che posso, faccio delle diagonali ascendenti, penso ai venti metri di portata utile, forse sto sbagliando, non ricevo nulla, un berretto nero mezzo sepolto, lo tiro fuori lo guardo, grossa testa, un ragazzo forse il proprietario, lo metto esattamente dove l’ho trovato, del ragazzo nemmeno l’ombra e nemmeno di un primo segnale. Tutto è silenzio, mi muovo in silenzio, cerco di ascoltare, di vedere. Sergio e Fernando a piedi fanno molta fatica, affondano, io progredisco meglio. Chiedo se hanno sentito niente, nulla e non hanno segnale. Mi domando dove siano finiti quei quattro che ho visto salire, possibile che non si siano accorti di nulla? Ecco si riaffacciano dall’alto, scendono, segnale finalmente, ma erano loro, falso allarme.

-Mettete tutti l’artva in ricezione!

Gli urliamo fra il nervoso e il frustrato.

Uno di loro capisce che è utile scendere sul fronte e lo bonifica dall’alto, ma nemmeno lui ha segnale fino in fondo. Io sono ormai a metà e visto che non c’è segnale è inutile che io continui a salire, chiunque sia sotto la neve, non aveva l’artva acceso, funzionante o non l’aveva affatto. Ricevo nel mentre la telefonata del soccorso, forse è già la seconda mentre vago a zig zag sui blocchi di neve in disordine, in ogni caso mi avvisa che l’elicottero è quasi pronto e noi? Noi non riceviamo nulla, nessun segnale su tutta la valanga, ma gli sci e il berretto non sono di nessuno qui. Rimetto il cellulare in tasca, impotente, una persona è sotto la neve lì e non mi capacito di come ci sia finita, forse ha fatto il salto di roccia dall’alto, ma l’avremmo vista cadere, o forse no?



Qualcuno urla di sondare la valanga, prendiamo le sonde. Sì, ma come facciamo in quell’enorme spazio, mi domando, mentre meccanicamente tiro fuori la sonda dallo zaino e cerco di bloccarla, ma è tanto che non la uso e quindi ci devo anche ragionare, cioè tiro il filo, poi incastro il nodo, così, arrotolo, giro, sì ce l’ho fatta.

Scende un altro sciatore, ecco un primo segnale, ma insomma, ma questi apparecchi li vogliamo metter tutti in ricezione? Lo si capisce che ci sono degli sci con tanto di pelli e non si vede il proprietario ma solo il suo berretto nero?

-Gli sci sono di un ragazzo, su al passo, li ha persi, li aveva in spalla. Sta bene, è su; mentre alcuni di noi viste le condizioni non hanno proseguito e sono tornati indietro, un piccolo gruppo ha deciso di continuare, a piedi per ridurre il rischio visto che c’era una cornice da vento, ma è venuto giù tutto e il ragazzo è stato trasportato un po’, ma per fortuna solo i suoi sci sono stati trascinati via oltre il salto di roccia.

Miracolato lui, c’era quasi da mandargli un accidente, richiamo immediatamente spiegando l’accaduto, ma il soccoritore mi domanda:

-Tu l’hai visto il ragazzo?

-No, io sono sotto il salto di roccia e non vedo su. Dicono che è su e che sta bene, è a piedi.

-Come scende?

Non saprei davvero come scende, forse è meglio che proprio non fosse salito così in alto penso un po’ indispettita, stanca ed infreddolita, ma è solo la reazione antistress di una esperienza che si avvia ad una felice conclusione per la salute di tutti.

-Sta arrivando l’elicottero con un’unità cinofila. Per favore, mi indichi tu la valanga, non vorremmo sbagliare valanga. Che colore hai la giacca?

-Verde, ho una maglia verde e i pantaloni marroni, sono sulla valanga, vi faccio il segnale Y, ci sono raffiche forti.

Non ho nemmeno rimesso il telefono in tasca che già ricevo la chiamata del soccorritore:

-L’elicottero è partito, in pochi minuti è lì da voi;

urlo di conseguenza:

-Arriva l’elicottero, mettetevi in sicurezza, gli zaini, le cose che volano, mettete via tutto!

Pochissimo tempo e sento il rumore dell’elicottero, rosso, l’elicottero del soccorso, si staglia nel cielo azzurro delle ore dodici, sono arrivati i soccorsi, li vedo. Forse ora non serve più, sono tutti tranquilli, è più uno show, il mistero degli sci è svelato, stanno tutti bene, ma io sono lì, una statua sulla valanga, impalata a Y con le braccia aperte in aria, un guanto in una mano a guisa di manica del vento, ma chissà se il pilota lo vedeva. Una raffica mi sferza arrivando forte alle mie spalle, ma questa volta sono preparata e non casco giù. L’elicottero arriva dall’alto e per atterrare seleziona proprio l’area più pianeggiante alla base del fronte. Scende la squadra, tutti vestiti di rosso, fra loro anche il cane, si allontanano dall’elicottero ed un ragazzo si avvicina, li aggiorna vedo. Io sono molto più su, ancora sulla valanga, in ‘maglietta’ con il guanto in mano.

Il soccorso è arrivato, lo stanno già mettendo al corrente, giù ci sono anche Fernando, Nicola e Sergio, la coppia travolta, altri scialpinisti, la situazione è sotto controllo, lo era già, ma ora lo è per la mia mente che ha finito anche l’ultimo compito di indicazione per l’elicottero. Ho freddo, sono stanca, cerco la giacca nello zaino, ho la sonda piantata lì, la recupero, la smonto, cerco di reinserire l’artva nella custodia, è in ricezione, non ci stà perchè nel Barrivox la linguetta che sporge quando è in ricezione non consente di riporlo nell’alloggiamento di plastica dura da usare durante l’attività, lo rimetto in trasmissione, tolgo le pelli, me le metto sotto la giacca davanti, le tengo sempre al caldo, lo faccio meccanicamente, ripongo, sistemo tutta l’attrezzatura per la discesa e scendo, la mia mente ancora altrove.

Sarebbe bello poter mettere la colonna sonora a questo momento, come in un film americano in cui tutto è risolto per il meglio e l’eroe, provato ed un po’ acciaccato, generalmente con un po’ di sangue sulla faccia e gli abiti lacerati strategicamente, ma non troppo, cammina verso i suoi compagni di disavventure, si abbracciano e poi tutti insieme, con una ripresa a grandangolo camminano nel sole verso un futuro migliore: evviva!

Io mi limito a fare delle foto mentre scendo, ma mi sposto rapidamente perchè il soccorritore con il cane che annusa ovunque, è già partito verso l’alto per bonificare la valanga, per sicurezza, per fare una passeggiata sulle ciaspole dicono ridendo alcuni, in un’atmosfera ormai sdrammatizzata. L’elicottero ora lo vedo bene, saluto chi è lì, ringrazio non so chi, ma forse tutti come sono solita fare e mi dirigo verso la selletta da cui ero arrivata almeno un’ora prima. Vedo che gli altri sono già scesi, eccoli arroccati in attesa in un punto meno ventoso, mentre c’è gente che ancora sale, con gli sci e due ciaspolatori improbabili su quel pendio parecchio ripido dove non si sprofonda affatto, il gossip della valanga dal rifugio Fuciade sale, cosa avete visto? Ormai c’è poco da vedere, è arrivato già anche il ragazzo a piedi a recuperare i suoi sci ed è meglio tornare indietro, perchè dove è caduta una valanga, dice la storica regola, in giornata puoi aspettartene un’altra.

A quel punto, quando gli eroi abbandonano il set, andranno al bar a bere una birra, mentre io a casa vengo attanagliata dai sensi di colpa e mentre scorro le foto mi domando se ho fatto tutto bene, ma soprattutto avrò fatto tutto il necessario?

Rivedo i fatti: potevo partire subito con l’artva in ricezione, ma non c’eravamo che noi su quel pendio, o forse no? Potevo aiutare a scavare, ma erano già in tre mi dico. Potevo arrivare fino in cima al fronte con l’artva in ricezione, ma aveva già verificato l’assenza di segnale l’altro ragazzo, l’avevo visto scendere con gli sci a zig zag con l’artva in mano fino a raggiungermi ed arrivare al fondo, era più veloce di me, avrei potuto fare anch’io più rapidamente, ma lui era in discesa, senza pelli, è ovvio che andasse più forte di uno in salita. Avrei dovuto sondare la valanga, ma se si è detto che non era più necessario perchè gli sci erano di uno su che li aveva persi, non si è visto cadere nessuno, eravamo tutti sani e salvi. Forse, allora, all’inizio di tutto, quando ero immobile a guardar cadere la neve dal salto di roccia, a vedere due sciatori inghiottiti, vederne sparire una sotto la massa bianca che avanzava inesorabile, forse, avrei dovuto scappare, spostarmi, ma così non avrei più visto dove erano gli altri travolti e, poi, nessuno di noi si è mosso, perchè sembrava innoquo. Si poteva, dunque, evitare di disturbare il soccorso alpino?

Penso di aver fatto bene a chiamare, premesso il fatto che noi avevamo una visuale ridotta del pendio, sotto il salto di roccia e non potevamo immaginare, ne vedere che la valanga era stata provocata da un gruppo di scialpinisti ‘appiedati per rischiare meno’ ma che potevano esser rimasti coinvolti a nostra insaputa, il soccorso è abituato a gestire queste situazioni, mentre per me era la prima volta, quantomeno per davvero e non in simulazione. Ho riportato sopra solo alcune delle domande che mi sono state poste, ma vi assicuro che ogni domanda era mirata a capire cosa era successo e cosa stava succedendo. Il gentilissimo Vigilio, capostazione del soccorso alpino di Moena, mi ha ritelefonato più volte per chiedere e darmi aggiornamenti, tenendo costantemente sotto controllo la situazione.

I consigli che mi sento di dare dopo quest’esperienza, in aggiunta ai soliti di prevenzione e autosoccorso che conosciamo (e che è difficile riuscire ad applicare lucidamente), è di montare e smontare spesso la propria attrezzatura, di non tenere pala e sonda in un punto remoto inaccessibile dello zaino, perchè è meglio che, quando arriva l’elicottero, il suo contenuto non sia sparso sulla neve perchè abbiamo estratto  la pala; di provare a scavare, non è semplice ed immediato come sembra, di approntare un cordino fisso sulla pala per mettersela a tracolla, perchè Sergio che non l’aveva, trovava più difficoltà a camminare sulla valanga con la pala in mano; di tenere il cellulare a portata di mano, in una tasca dei pantaloni magari lontano dall’artva, perchè averlo lì mi ha aiutato molto a chiamare e rispondere tempestivamente e a sentire la vibrazione, visto che, lo squillo, era impossibile sentirlo con il vento. Consigliano che, chi chiama il soccorso con il cellulare, non sia impegnato nella ricerca artva per evitare interferenze fra i due apparecchi. Infine, in questa occasione, malgrado tutto quello che è scritto sui manuali, ho notato che ognuno ha agito in armonia con gli altri senza che ci fosse una mente superiore o capogita a dare gli ordini, ma ricevendo gli aggiornamenti via via, chi aveva l’idea migliore la gridava oppure la eseguiva informando gli altri. Le situazioni sono ogni volta diverse ed io non ci tengo a sperimentarne molte dal vero per diventare esperta, ma sicuramente continuerò a simulare questi eventi e ad esercitarmi nelle azioni per scongiurare errori che potrebbero risultare fatali.

Attendo sicuramente le vostre impressioni del ‘senno di poi’, i consigli degli esperti, di come avremmo dovuto fare e non abbiamo fatto, di come avreste fatto voi, del perchè abbiamo fatto in un modo piuttosto che in un altro, le vostre dissertazioni su analisi tecniche e nivometeo a posteriori, i gossip sulle conseguenze per i ‘cattivi’ provocatori di valanga e tutto quello che vorreste dire e che non avete mai detto. Scriveteci a newsletter@caifirenze.it oppure direttamente in redazione a alpinismofiorentino@gmail.com .

Con Nicola e suo figlio abbiamo raggiunto il Passo delle Cirelle e le Cime Cadine il sabato successivo.

Sergio che mi aveva implorata per tutta la settimana precedente di fare una prova artva con sondaggio e disseppellimento dello zaino sepolto, è stato evidentemente accontentato. Ringrazio Fernando e la sua andatura da vescica sanguinante, perchè, se fossimo andati più veloci, la valanga ci avrebbe preso in pieno sotto il salto di roccia, o, chissà, forse l’avremmo provocata proprio noi…

Nel post successivo "Quello che mi ricordo" di Sergio Chiappi
http://alpinismofiorentino.caifirenze.it/2013/02/cronaca-di-una-valanga-vissuta-di-marina-todisco/
« Ultima modifica: 10/04/2013 08:09 da AGH »
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Re:La valanga di Passo Cirelle raccontata da chi c'era
« Risposta #1 il: 10/04/2013 08:08 »
Segue il racconto di Sergio Chiappi
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Sopra il rifugio Falier la pendenza si fa più marcata, qui Nicola si ferma per indicare le montagne lontane, dandogli i nomi, Marina, che è davanti a me, è impaziente di continuare perché quell’attesa la costringe a raffreddarsi troppo stando ferma. Così Nicola interrompe subito e si rimette in marcia, borbottando qualcosa. Cerca di giustificarsi dicendo che se uno vuole si può anche coprire in previsione di arrivare a quella specie di forcella poco più in alto. Giunti in questo punto, il vento si fa sentire con delle raffiche che quasi mi fanno cadere a terra, mentre Marina casca nello scattare una foto. Così decido di proseguire oltre e di seguire Nicola. Da qui si apre una piccola valle e per non perdere quota si rimane sulla destra costeggiando poco più su, alla nostra destra, una parete rocciosa.

Nicola, io e, poco dopo, Marina e Fernando. Alziamo gli occhi in alto e vediamo che dal salto di roccia alla nostra destra scende una nuvola di neve, candida come zucchero a velo. Non ho visto scendere blocchi di neve compatta, era come una spruzzata di neve soffice e innocua perché sembrava poca roba come quantità, tanto che per una frazione di secondo mi sono detto: che spettacolo! E’ scesa lungo la parete verticale di roccia alta si e no cento metri e si è accumulata alla base di essa trenta metri davanti a noi ed altri trenta metri più in alto rispetto alla traccia che seguivamo. Fermi ad osservare la scena si vede che quella neve che si sta a mano a mano accumulando incomincia a provocare un distacco del manto nevoso. A quaranta metri davanti a noi, ci sono due scialpinisti un uomo e una ragazza che appena si rendano conto di quello che sta accadendo invertano gli sci e cercano di venire verso di noi, non sulla traccia ma più verso valle in ricerca di una maggior pendenza e quindi velocità di fuga. Dopo cinque o sei secondi sono già travolti da questo, chiamiamolo smottamento e incominciano ad essere trascinati verso valle restando praticamente sul fronte dell’onda alta circa un metro. Da subito, ero fermo immobile, cercavo con lo sguardo di non perderli mai di vista, per andarli poi a cercare nel punto in cui fossero spariti.
Appena questa lenta massa nevosa si è fermata, scendeva a passo d’uomo, ho sentito che Marina mi chiedeva: la ragazza, la ragazza dov’è?!

E’ li con lui, sono tutti e due insieme e Marina: -Meno male, non ho visto bene perché l’uomo mi impediva di vedere la ragazza. Non è successo niente, mi sono detto. Sentiamo la ragazza lamentarsi forte che non riesce a liberarsi dalla neve, mentre l’uomo da subito era già fuori. Lui gli dice: -Calmati, non è successo niente, ma lei continua ad essere agitata. Così si incomincia a scendere verso di loro, io in maniera frettolosa non perché ritenevo che lei fosse in pericolo ma per far prima a tirarla fuori, per dargli una mano subito. Infatti gli ho detto: -Non ti preoccupare, abbiamo la pala. L’uomo ha detto: -Si’ si’, è tutto ok, ce l’ho anche io. Mi sono tolto velocemente lo zaino e ho buttato accanto a loro la mia pala affinché la usasse per disseppellirla mentre ripeteva in continuazione di fare presto per tirarla fuori. Lui non l’ha utilizzata ma ha preso la sua, così io me la sono ripresa e ho incominciato a scavare per liberargli la schiena mentre L’uomo e Nicola scavavano dalla parte davanti. Dopo un minuto poco più era già libera. Nel frattempo mi accorgo che Marina era a telefono con il soccorso per riferire quello che era accaduto e sento dire dall’uomo: -Ma che hai chiamato il soccorso per cosa? non è successo niente….non importava…

Marina a questo punto gli ha detto: -Ho avvisato per metterli al corrente del fatto. Così, direi, nella tranquillità, anche se un po’ affaticato per aver spalato, ho cercato di recuperar gli sci e bastoncini della ragazza che erano un po’ sotto la neve e cercavo di capire se era rimasto qualcosa sotto. In quel mentre ci siamo accorti quasi tutti insieme che c’erano due paia di sci a dieci metri da noi che spuntavano dalla valanga. Di chi sono quegli sci? Un attimo di silenzio e si sente dire: -Ci deve essere qualcuno sotto, seppellito, cerchiamolo, cerchiamolo! La ragazza incomincia a dire: -Salvatelo, tiratelo fuori!

Se fino a quel momento sono stato tranquillo, non lo si può dire da questo momento in poi. Quello che ho sentito non è come una vampata di calore o invadere il corpo di adrenalina, direi che mi sono sentito invadere dalla paura, dalla paura per essere già iniziata la corsa contro il tempo, che non era un gioco, che li sotto una persona in silenzio stava morendo. Io urlo due volte: -Mettete gli artva in ricezione e cosi dicendo ho messo il mio. Subito Nicola ha detto: -Ne sento due uno è a sinistra e uno me lo da a destra in alto. L’ha detto istantaneamente e non spostandosi da lì e subito ho pensato che era impossibile che avesse ragione, nel senso, come se uno accendesse l’apparecchio e istantaneamente dice: uno è li e l’altro è lì. E’ strano, ho pensato subito che non poteva essere vero però gli ho dato subito retta dirigendomi verso una delle due direzioni per cercarlo, (quella a sinistra). Il mio cervello nonostante ‘sapesse’ che quell’indicazione non poteva essere vera, gli ha creduto, come se bastasse una piccolo consiglio per farmi decidere se andare in una direzione o in un’altra. Tutto è avvenuto talmente in fretta che ancora non tutti gli artva erano stati messi in ricezione, così ci siamo immediatamente accorti che quei due segnali erano fasulli….non si sentiva nessun impulso. Quegli sci erano vicini, pensavo che fosse anche lui li vicino e inizio a piedi con l’artva in mano a spostarmi sulla valanga tenendo nell’altra mano la pala, non la sonda che era nello zaino in terra accanto ai miei sci.

Non sento niente, Marina è più in alto, gli chiedo se sente niente, nulla mi dice.
Ricordo che anche ‘l’uomo’ che fino ad allora era stato calmo, era giustamente frenetico, si dava da fare in su e in giù per cercare un segnale. Lui camminava al di fuori della valanga, lungo il suo perimetro, almeno così mi ricordo. Venti metri, venti metri mi dicevo è possibile che nel raggio di venti metri non ricevo niente? Allora deve essere molto più in alto rispetto agli sci, così salgo a fatica sulla valanga. Nel frattempo è sceso un altro scialpinista che era proprio abbastanza in alto, a trenta  metri da me. L’uomo gli chiede ad alta voce se ha l’artva in ricezione, risponde di si, e che non sente niente nemmeno lui. Eravamo in diversi, in vari punti della valanga e nessuno riceveva niente, con una ricezione minima di venti metri era impossibile non trovarlo. Allora ho detto a Marina: -Marina, io smetto di cercare con l’artva e inizio a sondare. Pensavo infatti che il sepolto poteva non avere l’artva con se, ma che fosse sotto li, anche se avevo qualche dubbio e ero meno teso rispetto ai momenti iniziali. Torno allo zaino, prendo la sonda, e inizio a sondare ogni cinquanta cm intorno agli sci. Marina venti metri più in alto aveva anche trovato un cappellino nero. La sonda entra bene e ogni volta che tocca il fondo si distingue che c’è roccia. Niente.

Poco dopo sento in giro dei discorsi, che quegli sci forse sono stati portati a valle da qualcuno che era sopra il salto di roccia e che si era salvato miracolosamente aggrappandosi ad una roccia proprio sopra di esso. Non smetto di sondare ma lo faccio più lentamente, sono li’, le voci dicono che quegli sci sono volati da su; gli credo o no a queste voci? Non mi costa niente continuare a sondare anche se la paura ormai è passata. Dopo qualche minuto però smetto quando arrivano altri scialpinisti da sopra e ci confermano i fatti. So che Marina nel frattempo aveva già richiamato i soccorsi, ma non mi ricordo quando, ero troppo preso dalla ricerca e dalla corsa contro il tempo. Mi ricordo che li ha richiamati tenendoli aggiornati sui nuovi fatti, cioè che ci sono persone che affermano che quegli sci sono caduti dall’alto, insieme alla valanga, che avevamo bonificato l’area con gli artva e non si sentiva nessun segnale. Gli hanno detto che sarebbero venuti lo stesso per sicurezza. Poco dopo l’elicottero era li’, ci siamo accucciati tutti e qualcuno ha detto di riporre le cose che volano, nessuno di noi aveva giacche a vento per terra, solo gli zaini. L’elicottero si è fermato sotto di noi appoggiando a terra solo un pattino, non si sentiva quasi nemmeno il vento delle pale perché era evidente che il flusso d’aria veniva deviato tutto verso valle, mi sono girato e ho visto Marina che faceva la Y. Ho pensato: ‘ma guarda che brava è Marina, giustamente gli fa il segno corretto che si dovrebbe fare in questi casi per segnalare che la richiesta era venuta da li’. Successivamente ci ha spiegato che il soccorso gli aveva chiesto il colore del proprio giacchetto (verde) e di indicargli la valanga. Scendono due ragazze di cui una doveva essere un medico ed un signore con ciaspole e il cane. Qualcuno gli ha ripetuto brevemente quello che era successo, l’elicottero va via e poco dopo si vede arrivare piedi anche il proprietario di quegli sci. Mi ricordo che sono state fatte le fotografie alle carte d’identità di coloro i quali hanno provocato la valanga. Erano due gruppi di quattro persone, un gruppo ha rinunciato a salire al passo delle Cirelle, notando degli accumuli pericolosi, mentre l’altro ha continuato “con gli sci in spalla”, così ricordo di aver sentito dire.

Questa frase mi è rimasta subito impressa perché non capisco il senso, al massimo uno poteva metterli attaccati allo zaino se la situazione lo chiedeva ma non certo in spalla precludendo l’uso di una mano. Tornati a quella chiamiamola così, forcella, ho detto a Marina che avevamo passato un’esperienza unica, ero allo stesso tempo contento perché nessuno si era fatto male e dispiaciuto per tutto quello che avevamo passato. Ricorderò a lungo quel silenzio dopo le parole di quella ragazza: -Salvatelo, tiratelo fuori!

Quella paura che in un secondo mi è entrata addosso quando sai che lì sotto qualcuno in silenzio è sepolto vivo. E’ esattamente la sensazione che ho provato.
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