Autore Topic: Un incontro  (Letto 69 volte)

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Offline pianmasan

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Un incontro
« il: 26/02/2025 06:38 »
Cari amici ed amiche,
per ravvivare un po' lo smorto forum vi appioppo un racconto di montagna scritto alcuni mesi fa. Solo Kobang lo ha già letto e posso dire che lo ha interpretato correttamente. Ne riparleremo.
Io tendo spesso alla fase "spirituale", ma è scritto anche per i laici, gli atei e gli agnostici, sia chiaro!
Buona lettura.


UN INCONTRO

La cima che oggi voglio raggiungere è una montagna a forma di piramide. Tre pareti, molto diverse tra loro, convergono verso la punta.
Una, rivolta a nord, è quasi verticale ed è solcata da numerose vie di arrampicata, frequentate anche in inverno dai ghiacciatori. E’ impraticabile per gli escursionisti.
Un’altra, che guarda ad est, è la più regolare ed è relativamente facile. Su di essa un tortuoso sentiero conduce con una serie infinita di serpentine prima ad una cresta e poi alla croce di vetta. E’ quello che sto percorrendo.
Prima di arrivare in vista della cuspide finale, il sentiero raggiunge la cresta che separa questo versante dalla terza parete: un ripido pendio sassoso rivolto a sud-ovest, sul quale si avventurano coraggiosi escursionisti di buona gamba. Non c’è sentiero, non traccia, non segni. Bisogna risalire tra massi e roccette, un po’ arrampicando, un po’ camminando, quasi sempre piegati verso il terreno e con piede assolutamente fermo. Così dicono i sacri testi della SAT  e questo so da amici. Io non ci sono mai salito.
Ebbene, mentre sto arrivando alla cresta e sembra quasi di poter toccare la croce, tanto è vicina, sorgono davanti a me due persone. Spuntano dal pendio scosceso – il versante sud-ovest - e mi appaiono improvvisamente davanti. Si fermano a tirare il fiato. Mi sorridono. Sono due signore di mezza età, sulla cinquantina, così ad occhio. Io saluto, mi sporgo leggermente verso il pendio dal quale sono spuntate e chiedo, tra il meravigliato e l’ammirato:
“Siete salite per di qua?”
Non mi rispondono immediatamente. Poi una delle due fa cenno di sì con la testa. E’ una biondina palliduccia, slavarida, diremmo noi in dialetto, piccolina. L’altra le assomiglia, ma è più scura di capelli, leggermente più alta e certamente più giovane. Intuisco che sono sorelle. Non delle gran bellezze ma nemmeno di aspetto sgradevole. Mi guardano e sorridono ancora, con un’aria quasi beffarda o almeno così la percepisco io.
Chiedo come hanno trovato la salita, se impegnativa, faticosa o pericolosa. Si guardano e la stessa di prima allunga il braccio e agita leggermente la mano, come a significare: “così così”. Do un’altra occhiata verso il basso: e quello sarebbe “così così”? Mah…
Le lascio e mi avvio alla croce, che raggiungo e tocco, come di consueto, a mano aperta. Levo lo zaino e mi siedo su un sasso poco distante. Mi godo il panorama di vette, crode, valli, forcelle e creste: alcune le riconosco per averle percorse.
La giornata è splendida, tersa e luminosa. Mi accingo a rovistare nello zaino per mangiare qualcosa ed eccole che arrivano, le due signore “così così”. Mi fanno un cenno di saluto e sempre appare quel sorriso che ora a me sembra meno scanzonato di prima. Si fermano in piedi presso la croce. Girano lo sguardo attorno per ammirare il panorama.
Non so perché, guardandole di sottecchi, mi ficco in testa che siano inglesi. Con il mio inglese da “Google traslator”, domando sfacciatamente da dove vengono. Centro! Sono proprio inglesi! Poi, senza che io chieda, la più anziana mi dice e mi fa capire a segni e a gesti che si fermeranno a dormire al rifugio, che il loro padre, “a wealthy and powerful man” così lo definiscono, paga loro ogni anno una vacanza sulle nostre montagne, di cui sono “very much lovers”.
“Wealthy”  è l’unico termine che non capisco. Se loro guardano le cime, io posso tirar fuori l’onnipotente cellulare, che qui prende bene, e cerco: “facoltoso”, vuol dire “wealthy”. Quindi sono figlie di un influente riccone d’oltre Manica che soddisfa annualmente la loro passione per la montagna.
La più giovane non ha mai parlato ma conferma puntualmente con leggeri cenni del capo quanto dice la sorella. Poi d’improvviso, vedendo le mie difficoltà con la lingua, chiede chiaramente con perfetta dizione:
“Latine loquere?” Sono sorpreso dalla domanda così inattesa ma gli studi “latinorum” emergono da recondite memorie e mi vengono in aiuto.
“Pauce Latine loquor”, rispondo.
Così, tra un cacumen, un beautiful, un iter, un high way, un furcula, un peak e un pater familias, io spiego l’orografia delle valli e delle cime, loro mi dicono che il padre è capo di una grossa ditta che si occupa di spedizioni intercontinentali. E’ anziano ma gode ottima salute.
La mia fantasia galoppa. “Vedrai”, mi dico “che il padre è il discendente, probabilmente unico erede, di una di quelle famiglie mezze nobili del Sussex, del Devonshire o dello Yorkshire, insomma di uno quei posti là, piovosi e verdissimi, cosparsi di ville ricoperte di edera. Gli antenati hanno fatto i soldi nelle colonie, con il the o con il cotone, può essere anche con la tratta degli schiavi: hanno accumulato ricchezze enormi ed ora l’ultima generazione si gode questa ricchezza, magari senza far nulla”. 
Quando torno alla realtà, le scorgo in cammino lungo la cresta. Sarà bene che mi avvii anch’io. Il rifugio mi attende.

All’ora di cena il rifugio non è silenzioso. Chiacchiere, discorsi a voce alta, commenti sulle foto digitali scattate durante il giorno, preparazione di escursioni sulle mappe, pareri, considerazioni varie.
Dopo cena me ne sto al mio tavolo da solo a bermi una birra. Il giorno dopo vorrei fare un’altra cima in zona, ma ripenso al versante sud-est di oggi; mi frulla per la testa l’idea di percorrerlo. Se riuscissi a trovare nella sala le due sorelle “così così” chiederei – in latino e in inglese - informazioni dettagliate. Alzo lo sguardo e le becco ad un tavolo in fondo alla sala, vicino alla scala che sale alle camere. Bene, finirò la birra e le raggiungerò.
Mi guardo in giro. E’ un bel rifugio, questo. Forse un po’ troppo grande e poco spartano, ma funzionale e ci si arriva in macchina. Il gestore è simpatico e disponibile, il personale gentile e premuroso.
Si alza il canto di un coretto vicino al mio tavolo. Ascolto con interesse, non sono male! C’è uno che sembra un maestro, tiene in mano il diapason per prendere l’intonazione. Sono sei, un primo, due secondi, un solo robusto baritono e due bassi, uno dei quali è il capocoro. Cantano alcuni pezzi. Poi attaccano “La Montanara” e, con mia grande sorpresa, le inglesi,  si alzano dal tavolo e si avvicinano. Restano in piedi e cominciano ad accompagnare il coro. Ai “rivi d’argento” e alla “capanna cosparsa di fior”, la più giovane, quella del latino, parte con un assolo, ma così melodioso da far venire la pelle d’oca. Il coro accompagna, ma si nota nei coristi una sorta di ammirata soggezione di fronte a tanta bravura. La voce non è strozzata ma limpida, sicura e di perfetta intonazione. Solo in qualche passaggio si avverte la madre lingua inglese.
Attorno al tavolo un folto gruppo di ascoltatori, in piedi, è in religioso silenzio. Alla fine del canto si leva un applauso prolungato che sembra una mitragliata infinita.
Dopo alcuni canti classici il maestro chiede rivolto alle due sorelle:
”Quel mazzolin di fiori?”
Le due inglesi si guardano, sorridono e fanno cenno di sì con la testa. Parte il coro.
Al verso “No’ l’è vegnù-ù-ù da me-e, l’è ‘nà da la Rosi-i-i-i-na”, nella ripetizione, la maggiore, questa volta, spara un “No’ l’è vegnu-u-ù da IOOOO”!, proprio come la vecchia SAT del Silvio Pedrotti. Ma un “IO” potente e lontano allo stesso tempo, come un’eco persa fra le crode, come se il canto fosse uscito dal rifugio a rincorrere il vento nel buio della notte su per le montagne.
Il coro tace. Il maestro appoggia il diapason sul tavolo, si alza e in silenzio fa un baciamano alle inglesi, prima alla senior, poi alla più giovane. Proprio così: non una stretta di mano o un pacca sulla spalla, un abbraccio: un baciamano! Il concertino va avanti e io ho i miei pensieri per la testa.
Vola la fantasia! Vedo il vecchio padre delle inglesi seduto in poltrona, in un  salottino, rivestito di legno così scuro, che sembra una catacomba. Sta sfilando da una busta quadrata di carta bianca con un largo buco in mezzo, un disco 78 giri, uno di quelli, “Durium” o “La Voce del Padrone”, che mostrano nell’etichetta centrale un cane accucciato vicino al trombone del grammofono. Pone con mano tremante il disco sul grammofono, appoggia la puntina e parte la musica: “No’ l’è vegnù-ù-ù da iooooo!”… E le figlie che gironzolano per casa ascoltano e assorbono!
Quando mi riprendo dalle mie riflessioni anglosassoni, vedo le sorelle salire le scale e sparire al piano superiore. Perse!
Allora vado al banco e chiedo informazioni al gestore, che è anche Guida Alpina.
“Senti, la parete sud-est della cima è difficile, alpinistica, esposta?”
La risposta è concreta. Mi chiede che escursioni ho fatto là in zona. Gliele snocciolo, con qualche annotazione personale, dicendogli che in giornata sono salito in cima dalla normale.
“Direi che è alla tua portata”, mi dice. “Stai solo attento a beccare il punto dove abbandoni il sentiero della normale che hai fatto oggi. Al primo tornante, tiri diritto. Punti ad una forcelletta sulla cresta. Prima e dopo di questa, è esposto e ripido, sono due tratti impegnativi. Poi entri sul maseron del versante e cominci a salire verso la cresta. Sassi, roccette, qualche passaggio erto, traccia appena visibile, da indovinare.”
Mi sento rassicurato e accenno alle due signore slavaride che hanno fatto la salita oggi.
“Hai sentito che concerto? E che voci?”
“Veramente brave”, mi fa, “sia una che l’altra. Con le bibite, i bianchi  e i rossi che ho servito mentre cantavano potrei regalare loro il pernottamento”.
Mi dice che le ha accolte sua moglie, sono un po’ strane, non si capisce la nazionalità, parlano poco e quel poco in inglese, ma  sono forti, toste, se sono salite in cima da quella parte. Ed hanno accettato di dormire nel sottotetto perché quando si sono presentate non c’era disponibilità e non avevano prenotato.
Gli racconto quello che ho saputo direttamente da loro, del vecchio padre, delle vacanze annuali sulle nostre montagne, del fatto che parlano benissimo in latino e confermo che sono inglesi, gente dura, staifa, abituata a combattere in tutto il mondo per terra e per mare.
Lo lascio perché ha da fare e me ne salgo in cuccia.


Parto molto presto, è quasi notte. Nella sala da pranzo c’è del silenzioso fermento. Parlottare sommesso, lieve brusìo, ultime occhiate alle mappe, entusiasmo contenuto degli escursionisti che stanno partendo. Gli scalatori sono già partiti. E’ una sensazione che conosco bene, elettrizzante, anche se la vivo per lo più a casa, dato che non sono un frequentatore abituale di rifugi.
Rapida colazione e caffè. Quando esco zaino in spalla il gestore mi saluta e alza il pollice della mano sinistra come a dire: ”Buona gita e… occhio.”
Giorno meraviglioso, non una nuvola in cielo, fa fresco e spira una brezzolina che sfiora la pelle come una morbida carezza. Senza difficoltà arrivo al primo tornante della normale. Il sentiero gira a destra, io proseguo diritto, tra sassi e arbusti.
Alta di fronte a me la forcelletta si staglia nera con nitido profilo contro il primo chiarore del giorno. Da una parte, verso la cima, l’erta cresta rocciosa, dall’altra un cocuzzolo appuntito, in mezzo l’intaglio della forcella. Salgo. Il pendio diventa a poco a poco sempre più ripido, regolare, senza vegetazione.
Un circa trenta metri sotto la forcella, che vedo bene sopra di me, a sinistra, il pendio s’impenna. La parete sale verso la cresta e per raggiungere la forcella c’è un passaggio molto esposto. Mi domando come siano passate le inglesi, non mi hanno mostrato imbrago, cordini o moschettoni. Io li ho nello zaino. Temo di aver sbagliato percorso. Mi fermo qualche minuto, poi decido di proseguire, mani sulla roccia e vuoto sotto di me. Saranno cinque, sei metri in traverso obliquo verso l’intaglio della forcella. Ansimando e senza guardare giù, con passi lenti e misurati, lo raggiungo. Miro la cresta affilata, diritta e scoscesa: non è praticabile per arrivare in cima. Ma dove saranno passate quelle due?
Al di là della forcella, ecco l’immenso “maseron”, la pietraia di cui ha parlato il gestore. E’ quasi un catino inclinato che poi si impenna e diventa una parete fortemente obliqua verso la cresta. Il problema, però, è arrivarci, a questa pietraia, perché dall’intaglio della forcella c’è un altro traverso molto esposto, quasi verticale. Mi fermo e per sicurezza tiro fuori dallo zaino uno spezzone di corda, un paio di moschettoni e il casco che porto sempre con me. Che cosa ne farò, non lo so. Comincio a traversare. Una mano, un piede, l’altra mano, il secondo piede, avanti così per pochi metri, fino ad un tratto impercorribile aperto sopra il baratro. Penso alle inglesi, ma dove cavolo saranno passate ‘ste due? Dove? Dove il percorso è “così così”? Maledico il mio proposito di salire da quella parte e mi fermo. Sono praticamente incrodato, il volto verso la roccia, la schiena sul vuoto! Che idiota sono stato ad avventurarmi da solo! Il
Con movimenti lentissimi e con una sola mano passo un anello di corda su un arrotondato spuntone di roccia vicino alla mia testa e aggancio un moschettone alla cintura dello zaino. Una sosta assicurata proprio da manuale… ma altro non posso fare. Cerco di mantenere la calma, lo spuntone mi dà ua certa tranquillità, ma non devo muovermi.
Mi tornano alla mente prima le due sorelle slavaride, poi tutti quegli escursionisti  recuperati dal soccorso nelle mie condizioni. Quante volte li ho criticati e sbeffeggiati! Ora sono io lo stupido, el mona di turno. Devo recuperare la calma. Sto fermo immobile per alcuni minuti che mi sembrano ore. Sempre con estrema cautela, volgo lo sguardo in giù all’abisso, osservo la forcella appena scavalcata che pare guardarmi per dire: “Vardélo là, el deficiente che va da sol en zerca de pericoi!”, guardo verso la pietraia, poi giro la testa in su, verso l’alto.
Più o meno un metro sopra la punta tondeggiante dello spuntone dove è agganciato il  cordino, c’è un segno bianco: né lichene né cromatismo minerale né traccia organica, proprio un segno! Sembra una “X” o una crocetta sbilenca, e subito sotto, un incavo nella roccia, un bel bucone scuro che raggiungo lentamente ma facilmente con una mano. I piedi trovano punti d’appoggio. Con cautela, quasi con delicatezza, sfilo la corda dallo spuntone e me la infilo nel collo. Mi tiro su, piedi leggeri e sicuri, salgo un po’, altro segno bianco, altro buco, su e su, sempre cercando e trovando segni bianchi, che distano tra loro non più di un paio di metri, con appigli comodi, fino a raggiungere una cengetta sulla quale mi fermo a respirare con calma. Sotto di me sempre il burrone.  A sinistra non si passa, vado a destra, trovo un canalino sassoso che si inerpica fin sotto un tetto a strapiombo. Ma piegando verso destra, ne esco guidato da un'altra “x” bianca, aggiro lo strapiombo e mi ritrovo sul margine del maseron. E’ fatta, è fatta, sono fuori!
Entrato nel catino, salgo ora lentamente e senza percorso obbligato tra pietrame, grossi macigni, brecciolino e qualche ciuffo d’erba secca. Posto da camosci! I segni sono sempre più radi ma non servono, il percorso è intuitivo.  La pendenza è leggermente diminuita. Da lontano sembrava molto più ripida. Vedo già in alto il punto d’uscita sulla cresta.
E’ il tardo pomeriggio di un giorno faticoso, le prime ombre della sera avvolgono la parte bassa del maseron, del catino. Non troverò nessuno che mi dirà, vedendomi: “Ma lei è salito da questa parte?” Meglio così, io solo conosco la mia paura.  E’ strano, però, che il gestore non abbia parlato di segni.
Certo che ‘ste due inglesi… che brave, che forti e che coraggio. Come mi piacerebbe che fossero proprio loro ad accogliermi in cresta! Mi sarebbe gradito anche il loro sorriso beffardo e mi sentirei di appioppare un casto bacio affettuoso all’una e all’altra. Mi rendo conto che queste riflessioni nascono dalla paura passata, dalla stanchezza e dall’ansia; sono io, ora, a sorridere beffardamente a me stesso.
Eccomi sulla cresta. Solo il tempo di tirare il fiato, non ho nemmeno molta fame. Do un’ultima occhiata alla parete. In fondo alla cresta scorgo la forcella, caput mundi dei miei rischi, prima di essa e dopo di essa. Mando un saluto alla croce e mi avvio.
A passo calmo – sono anche piuttosto stanco – scendo lungo il sentiero.
La sera è già inoltrata e quando arrivo al parcheggio del rifugio ci sono solo le vetture di quelli che vi passeranno la notte. Non ho tempo e nemmeno troppa voglia di andar a parlare col gestore. Lo avverto con messaggio che è tutto a posto. Mi cambio, bevo qualcosa e mi avvio con la macchina.
La strada che porta al paese è sterrata, chiara nella notte incombente. Attraversa un lungo pascolo, al termine del quale scende a tornanti regolari nel bosco fitto.
Guido piano, ripenso con sentimento contrastante di paura e di gioia alla mia disavventura con lieto fine. C’è poca luce ma quando sto per raggiungere il bosco, a mano sinistra intravedo le due inglesi. Sono loro, senza dubbio. Hanno già calzato, ma non acceso, le frontali, stanno per abbandonare la strada e imboccare il sentiero che porta diritto al parcheggio del paese. Do un’accelerata, le affianco, abbasso il finestrino, saluto e le invito a salire.
La loro risposta è una mano alzata come ringraziamento e l’altra aperta in segno di saluto, gesti accompagnati da un sorriso gentile e dolcissimo.  Ma d’un tratto tutte e due portano una mano, quella aperta, alla bocca e delicatamente vi soffiano sopra nella mia direzione. Questo, se non mi sbaglio, è quello che si chiama “bacio con il vento”. Poi spariscono nell’oscurità del fitto bosco.
Sono stupefatto, stordito ma una calma leggera mi pervade e non sento quasi più la fatica della giornata in montagna. Mi domando il significato di quel gesto ma non trovo risposta. Mi è rimasto impresso e come un fotogramma che si ripete infinite volte lo rivedo nei miei pensieri. Mi avvio, per il paese ci vorrà un quarto d’ora, mentre il sentiero è più lungo, un’oretta circa a piedi. Guido assai lentamente e con una calma per me inusuale.
Arrivo al parcheggio, solo tre macchine. Le due signore sono sul sentiero e qui devono passare! E’ quasi notte. Parcheggio la macchina, scendo, passeggio avanti e indietro, nell’attesa. A notte ormai piena, dopo una buona mezz’ora vedo nel buio, verso il bosco, il tremolare ondeggiante di due luci. Sono loro, arrivano! Mi avvicino al palo con la tabella del segnavia e resto là in piedi, immobile, in attesa che appaiano.
Ma poi… buio assoluto, silenzio, non passi, non parole, non luce, nulla di nulla. Sono letteralmente sconcertato, sbalordito, anzi, rimango là come un allocco, senza parole! Erano qua, stavano arrivando, ho visto le luci! E sono sparite, dissolte nel buio della notte, volatilizzate, perse nel nulla quasi come due fantasmi.
Faccio fatica a raccogliere i miei pensieri ma devo assolutamente muovermi e partire, è assai tardi, a casa saranno in pensiero. Mi avvio alla macchina, i miei passi sono incerti ma non per la stanchezza. Mentre sto infilando le gambe nell’abitacolo, una mano sulla portiera e l’altra sulla barra portatutto, mi fermo per un istante a guardare l’immenso cielo stellato che si confonde con le rade luci del paese immerso nel buio. Allora, in quel momento, simile al bagliore guizzante di un temporale notturno, un pensiero attraversa la mia mente illuminandola e tutto mi è chiaro.
Comprendo chi è “a wealthy and powerful man” e con lo sguardo perso nel buio  so con certezza che due spiriti buoni sono ritornati alla casa del Padre, da dove si erano mossi per compiere un atto d’amore.