Autore Topic: TRA WILDERNESS E MULINO BIANCO di Michele Corti  (Letto 1370 volte)

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Dietro al modo di produrre un formaggio ci sono le paurose contraddizioni del nostro tempo

C’era una volta un territorio che produceva risorse alimentari per l’uomo e per gli animali domestici, sfruttando in modo articolato ogni nicchia ecologica, operando in armonia con il ritmo di crescita della vegetazione e della riproduzione degli animali. L’espansione dello spazio antropizzato nei tempi moderni aveva portato ad un drastico ridimensionamento della presenza di specie selvatiche e di habitat “naturali”. Oggi, però, il modo di realizzare la produzione alimentare, in primis quella zootecnica, sta conducendo ad una pressione molto peggiore sulle risorse naturali e sugli equilibri ambientali (la Fao dice che nel mondo la zootecnia contribuisce all’effetto serra più del sistema dei trasporti). Un sistema di produzione e consumo che incoraggia la quantità e il vortice del profitto industriale e commerciale ha portato ad incrementare in modo impressionante i consumi di carne e latticini secondo un modello di “benessere” che, dai paesi della vecchia Europa e del N America, dilaga in quelli emergenti. Dalla penuria ad un consumo insano.
Parallelamente tutti gli ampi spazi territoriali che erano interessati alle attività agrosilvopastorali hanno lasciato spazio ad una “rinaturalizzazione” che può far gioire solo gli sciocchi (o coloro che perseguono ben precisi interessi). A questa “rinaturalizzazione” fa riscontro la concentrazione della produzione agrozootecnica nelle aree di pianura, vicine alle voraci conurbazioni (veri pozzi energivori) e ai porti, da dove arrivano le materie prime per l’alimentazione umana ed animale. Le aree “interne” restano “fuori mercato”. Quello svuotamento dello “spazio rurale” che non ottiene la pressione del meccanismo anonimo del mercato (con il differenziale di costi) lo ottiene la burocrazia, che applica regole espressione del world food system di matrice pratica ed ideologica N europea e N americana. Il risultato è la desertificazione alimentare: un territorio che da “edule” diventa “sterile” .

Anche dove la popolazione rurale (vetero o neo che sia) mantiene una certa presenza la produzione autositica di alimenti cade a zero o si limita a poche “specialità”. Intanto, in alcune aree in Europa e oltreoceano, si intensifica la produzione agricola aumentando l’uso di energia fossile, disboscando le foreste, aumentando i rischi di erosione, distruggendo la biodiversità e diffondendo molecole chimiche di sintesi nell’ambiente. La produzione e il riciclo dell’energia delle biomasse in questo contesto sono solo correttivi cosmetici e nuovo business e comunque non compensano la crescita dell’uso di carburanti e mezzi chimici .

La cattiva e colpevole coscienza di questo sistema schizofrenico genera l’ideologia della wilderness, della “protezione della natura” (come se gli ecosistemi fossero congelabili), del ritorno agli “spazi incontaminati” (ma dove?). Questa ideologia fa finta di ignorare che la realtà del nostro territorio rurale non è più caratterizzata dalla pressione di una numerosa popolazione locale sul territorio agrosilvopastorale. Quando è impellente esigenza sociale proteggere lo spazio antropico dai boschi si opera ancora come se si dovessero proteggere i boschi. Lo stesso vale per la fauna. Cervi e cinghiali sono troppo spesso troppi per un territorio in parte abbandonato ma in parte urbanizzato ed ecologicamente frammentato. I pastori piemontesi rinunciano a caricare gli alpeggi con le pecore, ma il lupo è intoccabile.

In realtà il “tifo” per il lupo più che da considerazioni naturalistiche (peraltro astratte ed ideologizzate: “il vertice della catena alimentare”) si spiega con le frustrazioni della giungla metropolitana e di una vita preordinata dalle regole burocratiche e del consumo. La funzione sociale della wilderness è chiara, il suo anacronismo è solo apparentemente una ingenuità.
Sulla base di considerazioni che nulla hanno a che fare con l’ecologia , nel nome della “protezione della natura”, si è ritagliato un sistema di “aree protette” (oltre a parchi e riserve di vario tipo oggi si moltiplicano SIC, ZPS, aree “Rete Natura 2000”, “wilderness”). Va detto chiaramente che questo apparato di “protezione della natura” ben difficilmente e raramente incoraggia i produttori rurali, i produttori dei formaggi sotto il cielo, i “custodi” del territorio, che non spargono sostanze chimiche e che mantengono la biodiversità. Spesso il pastore si scontra con la burocrazia, con Parchi che credono che i pascoli (a differenza di una prateria, di un biotopo particolare, di una zona umida) vadano gestito con carichi animali bassissimi perché “è più naturale”. Spesso il pascolamento è considerato un “disturbo” alla vegetazione ed è vietato del tutto. Così nella maggior parte dei casi si ottiene solo un paesaggio degradato esteticamente e con scarsa biodiversità. Non parliamo delle “valutazioni di incidenza ambientale” e simili che, nel caso dei produttori rurali e dei pastori, sono manifestazioni di sadismo burocratico (oltre che una tassa economicamente onerosa a vantaggio di interessi parassitari). Queste procedure del resto non frenano per nulla devastanti interventi speculativi di imprese in grado di schierare legioni di geologi ed esperti di ogni tipo. Pensare il contrario sarebbe più ingenuo che credere a Babbo Natale.

Fuori dal “perimetro” dei “Parchi” e dalle aree protette crescono gli insediamenti turistici attirati dalla presenza della “natura selvaggia” (icona-tipo l’orso radiocollarato) e dalla ... neve artificiale. E’ una fruizione consumistica distruttiva perché nei periodo di punta decine di migliaia di persone affollano con le loro automobili centri quasi deserti nel resto dell’anno. Disturbano più le pecore o queste orde? Il territorio non deve produrre, deve essere consumato in senso simbolico e reale. Là si produce, là si consuma è la regola ferrea del sistema. Là lavori, là ti “ricrei”. Questo consumo di “natura” e di “tempo libero” ha solo una funzione compensatoria, surrogatoria e, alla fine, è alienante (e socialmente stabilizzante).

Ben diverso il senso di altre esperienze. Bere (una volta superate le barriere psicologiche dell’ideologia igienista) una tazza di latte di una mucca che si alimenta solo di pascolo e che concentra nei pochi litri prodotti al giorno svariate sostanze biologicamente attive e aromatiche è, invece, esperienza socialmente destabilizzante. Induce a domandarsi perché la megamacchina agroalimentare deve produrre tanto cibo insapore per saturare il ventre ed obnubilare la mente, mettendo a rischio le arterie, sovraccaricando reni e fegato e, oltretutto, sprecando risorse naturali preziose ... per accumulare rifiuti.

Parimenti destabilizzante è constatare che forme di vita sociale ed economica che, a detta di sociologi ed economisti, dovrebbe essere estinte sono vive e vegete. Sì perché il pastore, il malghese “tardomoderno” sta abbandonando il senso di inferiorità nei confronti delle culture tecniche verificando che si può ottenere migliore qualità della vita, riconoscimento sociale e reddito producendo di meno e seguendo stili produttivi “endogeni”, “autosostenibili”, affrancati dalle costrizioni dell’integrazione industriale subalterna. Sono i giovani pastori, malghesi, piccoli produttori artigianali a rifiutare, consapevolmente e come elemento di ritrovata autonomia ed identità sociale, l’uso del mangime e degli innesti selezionati industriali per la produzione del formaggio. A ciò si accompagna il ritorno alle razze non specializzate che sole possono utilizzare bene i pascoli. Eresia zootecnica molto fastidiosa per il business (finanziato dallo stato) del “miglioramento genetico” perché mette in discussione tutto il sistema.

La “resistenza pastorale”, la “resistenza rurale”, la “resistenza casearia” non si rassegnano alla deleteria dicotomia industrializzazione/wilderness, società/natura, artificiale/naturale e, pertanto, hanno un valore sociale ed ecologico immenso. Andrebbero sostenute con forza da tutti quelli che parlano di “sostenibilità”, ma hanno la lingua biforcuta e avviene il contrario. Così il resistere comporta pesanti costi umani (economici, ma anche psicologici) ai protagonisti. Infatti, come se non bastassero le regole imposte dal “protezionismo ambientale”, ci sono quelle dei “controlli igienico-sanitari” che non considerano (se non molto parzialmente) la differenza tra operare in un contesto di un caseificio industriale rispetto a quello in cui operano i piccoli produttori rurali, i pastori, i malghesi. E poi ci sono gli sforzi dei tecnici (sostenuti da organizzazioni e Piani di Sviluppo Rurale) per trasformare le stesse aziende pastorali e gli alpeggi ad immagine delle aziende zootecniche intensive delle pianure con tanto di silos di mangime, carri miscelatori, sale di mungitura, tank del latte refrigerati, celle refrigerate.

Perché tanto accanimento (sia col bastone che con la carota) contro un mondo che non fa certo concorrenza in termini di mercato all’industria casearia ed alimentare in genere? C’è evidentemente la volontà di non lasciare scoperto anche il segmento delle (finte) produzioni “tradizionali”, di eliminare ogni possibilità di confronto tra il “tipico” addomesticato e standardizzato e i prodotti “con l’anima”, ma, fondamentalmente, c’è una volontà ideologica di allontanare il rischio che il consumatore sviluppi consapevolezza e attitudini critiche. C’è anche una volontà di controllo sociale: il sistema tollera che qualcuno resti a vivere in uno spazio rurale (già di per sé meno controllabile) solo se si segue uno stile produttivo e di vita urbano- industriale.

Il “Mulino bianco” e tutti i luoghi dell’immaginario ruralpastorale devono restare pure icone al servizio del consumismo: oltre al sistema di produzione industriale (più o meno mimetizzato) e alla wilderness (due facce della stessa medaglia) non deve esistere nulla. Se c’è va guardato con sospetto e va tolto di mezzo, o convinto ad accettare il ruolo di “baita di Heidi”, inoffensivo ed innocuo per il sistema. Belli i “piccoli produttori”, ma solo se accettano di stare al gioco e di svolgere il ruolo di “giocattolo”, di pura rappresentazione, di essere anch’essi incapsulati, irrigimentati. Il cercare di frenare a tutti costi nuove esperienze più concrete di “ri-ruralizzazione” (come, per esempio, si sta facendo ponendo nuovi bastoni tra le ruote alla distribuzione automatica del latte crudo sfuso) si spiega con il risvolto pedagogico, contagioso ed “eversivo” del “produrre meno e meglio - consumare meno e meglio”. Diversi allevatori, già incamminati sulla strada che da pastore o piccolo allevatore conduce al farmer, stanno tornando indietro a dimensioni e soluzioni compatibili con la propria base foraggera (re)introducendo sia la vendita diretta di latte crudo sfuso che la produzione aziendale di latticini.

Da tutto ciò ne può derivare una forte riduzione degli impatti ambientali mentre, sul piano sociale, le unità produttive che, specializzandosi, si erano isolate dalla comunità locale ed erano divenute prigioniere di sistemi di integrazione verticali economici e burocratici, diventano ora un ambito aperto di socializzazione. Come finirà? Il “rurale”, e l’ “alimentare” mai come oggi sono un campo cruciale di scontro di interessi e di visioni sociali, tanto che il volto della società futura dipenderà molto dall’esito dello scontro politico su questo terreno. Vi sono spinte forti che agiscono nelle opposte direzioni. Un po’ di ottimismo della volontà può far pendere la bilancia a favore del “buono” (in tutti i sensi).

da
http://www.associazione-malghesilagorai.it/
« Ultima modifica: 14/09/2010 10:36 da AGH »
Blog di Montagna
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Offline TONE

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Re: TRA WILDERNESS E MULINO BIANCO di Michele Corti
« Risposta #1 il: 14/09/2010 18:22 »


 Bere (una volta superate le barriere psicologiche dell’ideologia igienista) una tazza di latte di una mucca che si alimenta solo di pascolo e che concentra nei pochi litri prodotti al giorno svariate sostanze biologicamente attive e aromatiche è, invece, esperienza socialmente destabilizzante. Induce a domandarsi perché la megamacchina agroalimentare deve produrre tanto cibo insapore per saturare il ventre ed obnubilare la mente, mettendo a rischio le arterie, sovraccaricando reni e fegato e, oltretutto, sprecando risorse naturali preziose ... per accumulare rifiuti.


http://www.associazione-malghesilagorai.it/


penso che il concetto sia riassumibile in queste poche righe....solo che ci scontriamo sempre con il troppo comodo e malsano....e non tutti sono critici abbastanza per opporsi a stili di vita in cui ad essere munte non sono le vacche...ma le persone stesse....