Girovagandoblog

Escursioni in Trentino – il blog del forum girovagandoinmontagna.it

Maggio 31, 2013
di Agh
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Le autostrade forestali

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Val Campelle: l’autostrada forestale nei pressi di Ponte Conseria e la devastazione del bosco

Lo scempio delle strade forestali inutili prosegue imperterrito, nell’indifferenza generale. Credevo di aver visto il peggio con l’insulso moncone di “autostrada forestale” poco a monte di Ponte Conseria, in Val Campelle. Uno stradone enorme che non porta da nessuna parte lungo il Rio Campelle, a sua volta sconciato da una lunga serie di briglie in cemento. Era necessario uno scempio simile del bosco per una strada che dopo appena un chilometro termina in uno spiazzo? Una volta le forestali avevano gli alberi a filo strada: adesso si disbosca 40 metri a monte e 40 a valle. Certo i moderni mezzi di trasporto e lavorazione del legname sono più ingombranti di quelli d’un tempo, ma qui cosa ci doveva passare, il Titanic?  Qual era lo scopo di questa pseudo forestale? Fare un po’ di legna comoda? Dare lavoro a qualche impresa locale?

Ora scopro che lo stesso tragico destino è riservato anche alla bellissima forestale che da Ponte Conseria porta a Malga Valsorda I: domenica scorsa ho notato che tutti i grandi, e talvolta maestosi abeti a bordo strada sono stati “martellati” (segnati per il taglio). Diventerà un altro insulso stradone, mentre nessuno si cura delle migliaia di piante schiantate da anni e lasciate a marcire a poca distanza. Ma perché? Il fascino di camminare in una strada NEL BOSCO, e non ai suoi margini, sarà distrutto e perduto per sempre. Un tempo le strade forestali erano a misura d’uomo, oggi diventano ferite enormi nella montagna in nome di un gigantismo senza senso, se non quello di gonfiare gli appalti.

Purtroppo non ci si limita a rovinare le forestali con ampliamenti devastanti: si cerca con insolito puntiglio di distruggere il paesaggio delle zone rimaste ancora integre. Ho saputo infatti che il Comune di Telve ha intenzione di costruire quest’estate una nuova strada forestale che raggiungerà  Malga Ziolera, un angolo di paradiso ancora intatto. Per fare che cosa non è dato sapere. Nella delibera (n. 114 DD. 17.07.2012) si parla genericamente di malga “poco sfruttata”, ma non si specifica nessun progetto sensato al riguardo. Insomma intanto si fa la strada, poi si vedrà. Questa è la lungimiranza con cui si valorizza la risorsa più importante che abbiamo: l’ambiente. Se nel frattempo si sarà fatto l’ennesimo scempio del paesaggio anche nella stupenda Val Ziolera con un’altra inutile strada, chi se ne importa.

L’idilliaca Val Ziolera minacciata da una nuova strada forestale

Maggio 24, 2013
di Agh
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Nevicata del 24 maggio 2013

Nevicata tardiva sul Trentino il 24 maggio, dove ha imbiancato a partire dai 1000 metri di quota. In montagna si parla di 40-50 cm a 2000 metri. In questo video la strada per Malga Stramaiolo, sull’Altopiano di Piné, con circa 20 cm abbondanti di neve fresca umida, tendente al saponoso se pressata. La mia vecchia Honda CR-V 4×4 andava su bene finché ero in velocità (2a marcia) ma, provando una partenza da fermo, la macchina sbandava di lato quindi prima di rimanere infognato (a fine maggio!) ho pensato bene di fare dietrofront e tornare sui miei passi :)))

[youtube=http://youtu.be/nY6C1Il1cbo]

Maggio 10, 2013
di Agh
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Il posto più freddo d’Italia è in Trentino: -49.6°!

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L’Altopiano delle Pale di S. Martino: al centro il Rif. Rosetta / Pedrotti (C) foto Agh

Esiste un luogo in Trentino dove le bizzarrie della temperatura lasciano semplicemente sbalorditi: in poche ore il termometro può segnare sbalzi di decine di gradi. In inverno la temperatura dell’aria può scendere addirittura fino a 50 gradi sottozero, il record italiano assoluto del freddo. Questo luogo si trova sul disabitato Altopiano delle Pale di S. Martino, un vasto deserto roccioso a 2600 metri di quota. Nella stagione invernale è sepolto da metri di neve. Ma “l’impazzimento” delle temperature in realtà non si deve a misteriosi fenomeni sovrannaturali ma alla particolare natura carsica del territorio, caratterizzato da molte e profonde doline dove si formano dei grandi “laghi” d’aria fredda. In queste depressioni del terreno, la temperatura si abbassa incredibilmente anche di oltre 30 gradi rispetto alla superficie esterna.

Nella “Busa Nord di Fradusta” a 2607 metri di quota, il 10 febbraio 2013 le strumentazioni hanno registrato la temperatura record di ben -49.6°. Si tratta della temperatura più bassa di sempre misurata in Italia e in Europa centrale a queste latitudini (qui il comunicato ufficiale di Meteotriveneto). Nello stesso giorno, sul fondo della vicina “Busa di Manna” (2544 m), un’altra grande depressione che vanta precedenti record del freddo, il termometro è sceso fino -49.0°C.

Busa della Fradusta (foto Meteotriveneto)

Busa della Fradusta (foto Meteotriveneto)

Da alcuni anni le misurazioni delle temperature nelle doline delle Pale di S. Martino, che inizialmente erano fatte da appassionati di meteorologia di Meteotriveneto, si sono tradotte in uno studio scientifico denominato “Progetto Doline e Siti Freddi” (vedi servizio andato in onda sulla Rai), al quale collaborano l’Associazione Meteo Triveneto, Arpa Veneto Centro Valanghe di Arabba, Meteotrentino, l’Istituto di Scienze dell’Atmosfera e del Clima del Cnr ed il Parco Naturale Paneveggio Pale di San Martino. Lo scopo è quello di studiare il particolare microclima che si crea in questo particolarissimo territorio glacio-carsico. Il fenomeno del forte abbassamento delle temperature è particolarmente evidente nelle conformazioni a conca del terreno, dove con specifiche condizioni meteorologiche (notti serene e senza vento, con aria secca e neve al suolo) la temperatura può scendere a valori estremi, molto inferiori rispetto a quelli delle zone vicine e perfino delle montagne circostanti più alte. I principali motivi fisici di questo intenso raffreddamento sono gli stessi che causano le fredde notti invernali sul fondo delle valli: la perdita di calore del suolo ed il ristagno di aria fredda in basso.

Oltre alle temperature minime estreme, nelle doline in quota si riscontrano infatti altri aspetti particolari, come ad esempio fortissime inversioni termiche: scendendo nella depressione, la temperatura può diminuire fino ad 1° ogni metro di dislivello! Possono inoltre verificarsi improvvise e notevoli variazioni di temperatura, con aumenti fino a 20° in 15 minuti e ben 30° in un’ora se il vento irrompe nella depressione in una notte serena e calma. Anche le escursioni termiche giornaliere sono micidiali: l’8 marzo 2011, proprio nella Busa Nord di Fradusta, si passò da una temperatura minima di -40.7°alle ore 7, ad una massima di +4.7°C alle ore 13 : vale a dire un’escursione termica di 45.4° in sole 6 ore!

Le doline sull'Altopiano delle Pale di S. Martino (foto meteotriveneto.it)

Busa di Manna m 2546: dolina in altopiano glacio-carsico (foto meteotriveneto.it)

Le doline sono presidiate da stazioni meteorologiche automatiche, che registrano i dati in una memoria interna che viene poi “scaricata” dai ricercatori che salgono in quota a intervalli di tempo (vedi il video di Giampaolo Rizzonelli che spiega il fenomeno Frost Hollow). Il Progetto Doline e Siti Freddi non si limita a monitorare solamente l’Altopiano delle Pale di San Martino, ma si è gradualmente esteso a circa 80 siti, che vanno dal Trentino occidentale (comuni di Roncone e Lardaro) fino al Friuli Venezia Giulia (Gorizia e Trieste), a quote che partono dal livello del mare fino ai 2607 metri delle Pale di S. Martino.

Una considerazione a margine: pare piuttosto sorprendente che questa eccezionale attrazione naturalistica unica in Europa, non sia stata ancora adeguatamente valorizzata turisticamente, organizzando magari apposite visite guidate. L’Altopiano del celebre gruppo dolomitico delle Pale di S. Martino dove si trovano le doline è raggiungibile con relativa facilità: da S. Martino di Castrozza (TN), con l’impianto di risalita del Col Verde e quindi con la funivia della Rosetta si guadagna quota fino a 2654 metri. In circa 20 minuti, in leggera discesa, si raggiunge il Rifugio Rosetta / Pedrotti m 2581 (visibile a vista dall’arrivo della funivia), quindi in circa due ore di marcia, preferibilmente in ciaspole o sci, si arriva alle doline delle Buse di Manna o Fradusta. Prestare molta attenzione in caso di possibile nebbia: perdersi nei meandri e nei labirinti dell’Altopiano è tutt’altro che difficile! Qui una mappa Bing dell’Altopiano delle Pale di S. Martino e i principali punti GPS di interesse (rifugio, doline etc).

Aprile 22, 2013
di Agh
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L’Himalaya in miliardi di pixel

Everest - Khumbu

Il ghiacciaio Khumbu, via d’accesso all’Everest, fotografato ad altissima risoluzione (foto GW)

La grandiosa catena dell’Himalaya racchiude quasi 50.000 ghiacciai d’alta quota, fonte d’acqua vitale per i principali fiumi dell’Asia: Indo, Fiume Giallo, Gange, Brahmaputra, Irrawaddy, Salween, Mekong e Yangtze. E’ la più grande concentrazione di ghiacciai al di fuori delle calotte polari, per questo l’Himalaya viene chiamato il “Terzo Polo”.

Da molti anni la comunità scientifica dibatte sulla riduzione dei ghiacciai, immensi serbatoi di acqua dolce dai quali dipende l’approvigionamento idrico e quindi la vita di milioni di persone che vivono a valle. Gli scienziati concordano sul fatto che è in atto un ritiro anomalo rispetto ai cicli naturali, accelerato probabilmente dai cambiamenti climatici. Non è chiaro tuttavia quali potranno essere le conseguenze.

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David Breashears: alpinista, fotografo, regista, ha fondato Glacier Works per documentare i ghiacciai himalayani (foto GW)

David Breashears, alpinista, fotografo e regista , ha fondato GlacierWorks, una organizzazione no-profit che studia le modifiche dei ghiacciai dell’Himalaya nel corso degli anni. Dal 2007 ha intrapreso dodici spedizioni per documentare lo stato attuale dei ghiacciai, ripercorrendo i passi dei primi pionieri della fotografia di montagna, per catturare nuove immagini e metterle a confronto con quelle scattate nei decenni precedenti.

Breashears ha realizzato inoltre una documentazione fotografica ad altissima risoluzione. Con la tecnica della “foto immersiva” è possibile esplorare l’immagine in ogni dettaglio. Come questa immagine da 3,8 miliardi di pixel del ghiacciaio Khumbu nei pressi dell’Everest visto dal Monte Pumori.  E’ composta da ben 400 foto assemblate: è possibile ingrandire l’immagine fino a vedere le tende dei vari campi base, e perfino gli alpinisti che risalgono le seraccate del ghiacciaio.

Aprile 12, 2013
di Agh
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Gigi Telmon, una vita per la montagna

Luigi "Gigi" Telmon

Luigi “Gigi” Telmon

Nato a Susa in provincia di Torino nel 1932, Luigi Telmon [1] ha dedicato la sua vita alla montagna. In particolare, lo studio delle valanghe é divenuto nel tempo una sorta  di «missione», con lo  scopo di salvare piú vite umane possibile tramite la conoscenza e l’informazione.

Chi scrive lo ha conosciuto parecchi anni fa, nel 2001, quando organizzammo insieme una “due giorni” divulgativa sulle valanghe per il newsgroup it.sport.montagna. Ricordo che, generosamente, volle venire assolutamente gratis e non accettò neppure un rimborso spese per la benzina e il soggiorno a Trento :).

Gigi, negli ultimi anni oltre al classico “trittico” per la sicurezza di Artva, pala e sonda, sono apparsi in commercio gli “zaini Airbag”. Sono strumenti validi? Quali sono pregi e difetti?

Ho sperimentato i primi esemplari di zaini “airbag” più di quarant’anni fa facendoli investire da una notevole valanga di lastroni generata dal crollo di una cornice, vincolati ad una zavorra di 80 Kg. La prova ha avuto luogo a confronto con identici manichini vincolati ad una funicella da valanga che, alla sua estremità libera, aveva un palloncino di circa 30 cm di diametro. I manichini con l’airbag sono rimasti a galla e si sono arrestati prima dell’arresto della valanga, dopo essere stati spinti all’esterno della stessa. I manichini con la funicella sono stati sepolti e rinvenuti velocemente, in fondo alla valanga, grazie al galleggiamento del palloncino e seguendo la funicella semisepolta. In quel periodo si stava cercando il modo di rendere più valido l’uso della funicella. L’avvento dell’airbag ha chiuso ogni sperimentazione con la funicella.
L’airbag di allora era un unico cuscino, sul retro dello zaino, che veniva gonfiato al momento del bisogno esercitando una trazione su una maniglia, posta anteriormente sullo spallaccio sinistro. Questa azionava una bombola in grado di gonfiare il pallone, riducendo il peso specifico del complesso corpo-pallone per consentirne il galleggiamento. Il fatto di avere il pallone sulla schiena, tuttavia, costringeva la parte più pesante del complesso (il corpo del travolto) a scivolare con la neve , con conseguente possibilità di traumi o di soffocamento per penetrazione di neve nelle vie respiratorie. Lo zaino aveva un peso abbastanza rilevante. Successivamente sono state apportate modifiche soprattutto volte a favorire lo scivolamento del corpo sulla neve, suddividendo il cuscino dorsale in due laterali, a parità di volume complessivo.

Pregi:

1. Galleggiamento assicurato.
2 Pronto reperimento da parte dei soccorritori grazie al colore vivace dei cuscini
3 Minor percorso durante il trascinamento nella neve
4. A differenza dell’ARTVa, che favorisce la ricerca, l’airbag favorisce il salvataggio della vita per effetto del galleggiamento sulla valanga.

Difetti:

1. Necessità di prontezza di riflessi per azionare le bombole al momento dell’inizio del travolgimento: in alternativa si può azionare l’apparecchio in caso di sospetto, ma poi occorre proseguire o con i palloni gonfi, o ricaricandoli poi con bombole di scorta (aumento del carico)
2. Peso relativamente ancora elevato
3. Possibilità di traumi durante lo scorrimento, specie se non sono stati aperti i laccioli degli sci per consentirne lo sgancio e non sono stati tolti i polsi dai laccioli dei bastoncini, per poterli abbandonare.
L’aver indossato l’airbag non esime dall’adottare tutti gli accorgimenti raccomandati allo scialpinista quando si inoltra su un pendio potenzialmente pericoloso, compresa la protezione delle vie respiratorie.

Gli Artva moderni digitali sembrano molto più facili da usare rispetto agli analogici di una volta. E’ davvero così?

Quando ero alla sezione Studi della Scuola Militare Alpina di Aosta, ho avuto modo di sperimentare i primi apparecchi di ricerca, oltre quarant’anni fa, a cominciare dallo SKADI, il primo ricercatore giunto in Italia, portatomi da un ingegnere americano. Successivamente ne sono stati prodotti altri in Europa, in particolare lo ZELLWEGER e l’ AUTOPHON, la serie dei PEEPS e il REDAR. A seguito degli esperimenti ho optato per la frequenza di 457 kHz utilizzata dall’Autophon Barryvox, che dava le maggiori garanzie di intercettazione del segnale a distanza e di precisione di individuazione. Ho provveduto, quindi, a far realizzare un apparecchio in Italia per le Truppe Alpine con la stessa frequenza (FITRE RT 75). I primi esemplari furono di color kaki oliva e successivamente la produzione è stata realizzata in rosso anche per il pubblico.
Si trattava sempre di apparecchi analogici, compatibili con tutti gli apparecchi che utilizzavano la frequenza di 457 kHz. Il loro impiego era facile, veloce e preciso, a condizione di seguire precise norme di ricerca, possibili dopo un breve esercizio e ponendo la necessaria attenzione. Fidandomi della loro validità e robustezza ed adottando le necessarie procedure di ricerca, anche per ovviare ad interferenze con altri ricercatori in zona, gli ARTVa analogici non mi hanno mai dato problemi. Ho addirittura lanciato un FITRE su una pietraia e si è appena scalfitto l’involucro mantenendo inalterato il funzionamento.
Per ragioni … anagrafiche e a causa di un cambiamento di incarico di servizio, non ho potuto effettuare studi ed esperimenti sui nuovi modelli entrati in commercio ed in particolare sui digitali. Non posso quindi esprimere un giudizio obiettivo, non avendoli mai impiegati sul campo. Per le mie esigenze personali, andate via via scemando fino, ormai,  ad annullarsi, andavano benissimo gli analogici ed ho continuato ad usare quelli. Ritengo che il progresso tecnologico possa favorire l’impiego dei digitali, ma non sono in condizioni di esprimere un giudizio, per cui non so se la tecnologia moderna abbia dato più peso all’efficienza, alla robustezza ed alla facilità di impiego o alle leggi di mercato, visto il proliferare dei modelli. Resta il fatto che gli apparecchi, di qualsiasi tipo essi siano, nell’ambito di un gruppo, debbono, ovviamente,  essere sempre compatibili fra loro ed usati dopo una doverosa preparazione del personale.

Il costo degli apparecchi Artva é generalmente considerato elevato (anche se a ben vedere è assurdo che si spenda molto di più per gli sci, o per una giacca, che non per uno strumento che può salvare la vita) e alcuni rimandano l’acquisto, o considerano l’idea di comprare un Artva di seconda mano. E’ una buona idea?

Ritengo sia una cattiva idea risparmiare su un oggetto che può salvare la vita, propria o altrui: la vita non ha prezzo! Circa gli ARTVa di seconda mano credo che più gli apparecchi sono sofisticati, più la loro durata sia limitata (parere da inesperto in elettronica). Un apparecchio di seconda mano ritengo sia affidabile in relazione al motivo per cui viene venduto, all’affidabilità della persona che lo vende ed all’uso che ne è stato fatto. In ogni caso, non avendo la possibilità di acquistarne uno nuovo tra i più validi è meglio averne uno di seconda mano, di buon livello, che non avere niente o averne uno scarso e poco sicuro.

Anche quest’inverno una serie di incidenti ha funestato molte escursioni scialpinistiche. Non di rado le vittime erano considerate esperte e in taluni casi erano coinvolte addirittura guide alpine. Anche se c’è il detto che dice “la valanga non sa che sei esperto”, può darsi che a tradire sia un eccesso di sicurezza? O la valanga è spesso un fenomeno troppo complesso da prevedere, anche dagli esperti? 

Spesso si ritiene esperto anche chi non lo è e, chi lo è, oltre all’esperienza deve essere anche dotato di prudenza, buon senso, e, se guida, non deve essere condizionato dalle esigenze, a volte insistenti, del cliente. La valanga è sicuramente un fenomeno estremamente complesso e diversificato, difficile da valutare anche da esperti, sia come fenomeno in sè, che come possibilità di localizzazione. Per fare una buona valutazione occorrono, una corretta interpretazione del bollettino, che necessariamente è estensivo, la conoscenza degli eventi meteonivologici che si sono susseguiti durante la stagione e le loro conseguenze, e, per quanto possibile, la conoscenza del terreno.
Inoltre sono necessarie valutazioni locali estemporanee mediante prove specifiche che comportano notevole impiego di tempo, energie ed elevata esperienza (ad es. esame stratigrafico, cuneo o blocco o trapezio di slittamento, sondaggi ecc.), cose non sempre possibili durante una gita.
Inoltre le prove sono puntiformi e valide in un intorno spesso molto limitato, per cui vengono normalmente trascurate durante una gita. Nelle discese in campo libero, inoltre, questo tipo di prove è praticamente impossibile ed una accurata valutazione deve essere fatta a priori. L’eccesso di sicurezza può essere anche una causa, ma io tendo a ritenerlo più un eccesso di presunzione o di superficialità. A volte prevale il senso del dovere e di sacrificio dei soccorritori che, spesso, pur consci del rischio che corrono, affrontano pericoli elevati al fine di trarre in salvo chi si è messo nei guai, anche a costo della vita.

Lo scialpinismo di una volta si praticava sostanzialmente in primavera, quando il manto è generalmente assestato e le valanghe “da caldo” sono in qualche modo più prevedibili. Oggi, alla prima nevicata invernale, orde di scialpinisti si lanciano sui pendii, non sempre con la necessaria preparazione. Ogni anno infatti si contano diverse vittime. Poiché è impensabile un “ritorno alle origini”, cosa si può fare?

L’assestamento del manto, in primavera è generalmente una realtà, tuttavia non bisogna trascurare il modo e le condizioni in cui questo assestamento è avvenuto. Ad esempio non bisogna trascurare il fatto che, sotto ad un manto ben assestato, sia presente la brina di fondo, quindi non solo “valanghe da caldo”. E’ molto difficile convincere gli scialpinisti a non fare uscite invernali, specie da quando le capacità tecniche sono migliorate, i materiali sono di più facile impiego e le piste battute sono molto affollate e con caratteristiche che soddisfano poco le esigenze di sci in libertà. Mi sono dedicato alla meteonivologia con approfonditi studi sia in Italia che in Francia e specialmente in Svizzera, paese che da più tempo si occupa dello studio dei fenomeni nivologici, quando alcuni incidenti mortali mi avevano commosso e scosso per la mancanza generale di conoscenza del fenomeno delle valanghe e delle conseguenti misure di sicurezza da adottare.
Da allora il mio primo scopo fu di cercare di preservare il più possibile la vita di chi, come me, per passione o per lavoro, praticava la montagna invernale. Ho perseguito questo scopo prima con una preparazione profonda e scrupolosa e poi cercando di divulgare il più ampiamente possibile le conoscenze acquisite con corsi, conferenze, scritti, ecc. in ogni ambiente interessato alla montagna. L’argomento fu, così, introdotto nei corsi per organizzazioni del C.A.I., Guide Alpine, Maestri di sci, Guardie Forestali, Organizzazioni Militari, Forze dell’Ordine ecc, allo scopo di diffondere conoscenze corrette sull’argomento.
Ho avuto qualche riscontro nel senso che più di una persona mi ha espressamente ringraziato per avergli fornito il modo di risparmiarsi una brutta avventura, anche se non si potrà mai sapere quante potenziali vite ha risparmiato, con il suo lavoro e la sua passione, quello sparuto gruppo di una decina di persone che facevano parte del primo Servizio Valanghe Italiano (SVI) del C.A.I.
Nel frattempo, però, la popolazione degli sciatori in campo libero è talmente aumentata che i risultati sembrano quasi inesistenti, anche se la conoscenza del fenomeno valanga si è diffusa a macchia d’olio. In realtà gli studi e l’attività del piccolo gruppo di appassionati che hanno dato vita al Servizio Valanghe Italiano del C.A.I., di cui mi onoro di aver fatto parte, hanno dato l’input per una grande diffusione della conoscenza del problema delle valanghe, da cui sono nati i Servizi Valanghe regionali riuniti nell’AINEVA, un Ufficio Valanghe alla Scuola Militare Alpina di Aosta, ed il Servizio Meteomont.
Prima degli anni sessanta si credeva ancora, come diceva il Carducci, che le valanghe tuonassero “rotolando per le selve croscianti”. Credo sia necessario continuare sulla strada della prevenzione, della conoscenza e della sensibilizzazione, poiché i risultati sono più che positivi, dal momento che il numero degli incidenti per stagione, nel complesso, non è aumentato rispetto all’elevatissimo incremento del numero dei praticanti dello scialpinismo.

In questi ultimi anni si è molto diffuso l’uso delle ciaspole: un’attività sportiva che, a differenza dello scialpinismo, è alla portata di tutti. Ma, proprio per questo, ci si chiede con quale consapevolezza del pericolo molti praticanti si avventurino sulle montagne innevate, spesso spinti dal facile entusiasmo per questi attrezzi che non richiedono alcuna conoscenza tecnica, mentre i rischi sono gli stessi di chi fa scialpinismo.

I problemi degli escursionisti muniti di racchette da neve sono analoghi a quelli degli scialpinisti, ma la popolazione di questi escursionisti, anche se generalmente segue itinerari più sicuri, è per la maggior parte priva di conoscenze in campo nivometeorologico. I media, anziché dilettarsi alla caccia dei fantasmi dopo ogni incidente, farebbero bene a fare attività di prevenzione, informandosi correttamente per poi diffondere le conoscenze necessarie per non far affrontare pericoli, a volte neppure immaginati, ai gitanti allettati dalla nuova moda delle racchette da neve (credo: in Trentino erano “ciaspe” diventate poi “ciaspole” dopo la diffusione della gara con le ciaspe: “La Ciaspolada“).
L’uso del neologismo si sta diffondendo ovunque come l’uso delle racchette: sarebbe bello se i produttori di questi materiali allegassero al materiale in vendita un manualetto informativo che sensibilizzasse l’acquirente sul pericolo delle valanghe con informazioni corrette per la conoscenza del fenomeno e del comportamento da tenere durante la gita e fornendo anche informazioni su dove rivolgersi per approfondire l’argomento. Non so, tuttavia, quanto i produttori ed i venditori di questi materiali apprezzerebbero questa idea.

Lo scialpinista vecchia maniera di solito veniva da una lunga gavetta e imparava con la pratica a riconoscere i vari tipi di neve e le situazioni più ricorrenti di pericolo. Il fatto di dover scendere con gli sci, lo induceva inoltre a studiare bene i percorsi, sia in salita che in discesa. Oggi gli impianti di risalita portano gli sciatori direttamente in quota. I cosiddetti freerider e snowboarder, spesso giovanissimi come dimostrano recenti incidenti, affrontano pendii e canaloni probabilmente con una consapevolezza approssimativa sulle condizioni della neve. Cosa ne pensi?

E’ uno dei problemi legati alla velocità del progresso tecnologico che ritengo difficile da risolvere. Informare questi giovani, entusiasti e spericolati, come è normale a questa età, è molto difficile. L’unico ambiente in cui possono essere contattati per essere informati, penso possa essere la scuola delle zone vocate alla montagna: le lezioni di geografia o di scienze potrebbero essere il sito più idoneo, non dico per fornire approfondite conoscenze ma, quanto meno, per sensibilizzare i ragazzi sul problema in modo da indurli ad informarsi. Ovviamente previa informazione corretta dei docenti: altro difficile preblema, se questi non sono interessati alla montagna.

Il pericolo delle valanghe può essere meglio affrontato con una migliore conoscenza, prevenzione e formazione, magari iniziando fin dalle scuole. Mi sembra che qualcosa in questo senso si stia facendo, almeno qui in Trentino, con esercitazioni e lezioni impartite da componenti del Soccorso Alpino. E’ abbastanza? Cosa si potrebbe fare maggiormente?

Mi hai preceduto con la stessa idea dello sfruttamento dell’organizzazione scolastica. Ricordo che al Passo del Tonale molti ragazzi delle scuole del Trentino, a turno, trascorrevano un breve periodo ospiti di una casa della Provincia ed io, come altri specialisti in altre materie relative alla montagna, andavamo a tenere lezioni ed esercitazioni ad ogni turno. L’interesse dei ragazzi era altissimo e ricordo come si divertivano, ad esempio, nelle esercitazioni di ricerca con l’ARTVa. Non so se questo venga ancora fatto, ma ritengo sia una strada giusta per sensibilizzare i ragazzi sui pericoli della montagna e sul mistero delle valanghe. Altra esperienza l’ho fatta con la provincia di Bolzano che realizzava un periodico per ragazzi in cui tenevo una rubrica sui pericoli della montagna e sulle valanghe. Anche questa mi sembra una buona cosa , ma non so se, attualmente, venga ancora realizzato qualche cosa di simile.

Gli studi hanno dimostrato che dopo appena 15 minuti dal seppellimento, le probabilità di sopravvivenza del travolto calano drasticamente, perciò è essenziale “l’autosoccorso” immediato dei superstiti. Secondo te quanti sono sufficientemente preparati per affrontare questa drammatica evenienza?

Non posso giudicare quale sia la preparazione alla ricerca con l’ARTVa ed al disseppellimento dell’infortunato da parte degli escursionisti attuali. So che molti scialpinisti che fanno capo ad organizzazioni tipo sezioni del C.A.I. spesso si riuniscono per fare esercitazioni, ma non so quale preparazione abbiano quelli che si limitano ad acquistare il materiale su suggerimento dei commessi o degli amici. L’autosoccorso comincia molto prima dell’uso dell’apparecchio, in quanto deve, per avere qualche probabilità di successo, essere preceduto, durante la gita, da precise norme di comportamento del gruppo atte a far sì che, in caso di evento valanghivo, qualcuno del gruppo non ne sia coinvolto in modo da poter iniziare subito la ricerca dei compagni travolti.
Tutto ciò necessita di una preparazione a monte. E’ ovvio che se tutto il gruppo viene sepolto, le probabilità di sopravvivenza sono estremamente limitate, per non dire nulle, in quanto il tempo di intervento delle squadre di soccorso organizzato è quasi sempre superiore al tempo della maggior probabilità di sopravvivenza. In tal caso l’uso dell’ARTVa serve sopprattutto ai soccorritori per trovare più rapidamente dei morti.

Talvolta si ha l’impressione che alcuni considerino l’Artva come una specie di amuleto, mentre invece, dimmi se sbaglio, dovrebbe essere considerato davvero come “l’ultima spiaggia” per avere una qualche possibilità di salvarsi, perché la valanga spesso ti uccide durante il travolgimento. 

Come ho già detto, spesso il materiale viene acquistato su suggerimento di commessi od amici e, talvolta, portato al seguito proprio come amuleto: a volte nello zaino, a volte addirittura spento. Comunque non è più l’ultima spiaggia per avere qualche probabilità di salvarsi. L’uso corretto consente sì il rapido ritrovamento da parte dei compagni, se qualcuno resta fuori dalla valanga, ma non impedisce il seppellimento, con i conseguenti traumi e, a volte, i molto lunghi tempi di scavo ed estrazione. Anche questa operazione necessita di procedure ben definite per cui occorre essere preparati senza lasciarsi sopraffare dall’affanno e dall’emotività. Attualmente la maggior probabilità di salvezza ritengo sia data dall’uso dello zaino Airbag, in quanto consente il galleggiamento sulla neve, limita i traumi da seppellimento, consente una rapida individuazione da parte dei soccorritori e, anche se l’infortunato fosse nell’impossibilità di reagire, per cause varie, consente tempi di sopravvivenza compatibili anche con i tempi del soccorso organizzato. Se il peso, ancora relativamente elevato, lo rende poco gradito agli scialpinisti che salgono a piedi, può essere un toccasana per chi usa mezzi vari di risalita e corre rischi solo nella fase di discesa.

Ora qualche spunto un po’ polemico :). Capita di osservare bollettini online di province confinanti che riportano un grado di pericolo differente della stessa zona. Questa differenza di valutazione corre esattamente lungo il confine provinciale e lascia molto perplessi. Mi è stato spiegato che questo può essere determinato dal fatto che i vari bollettini, redatti da ogni provincia, non sono stilati nello stesso orario. Non si potrebbe uniformare la diramazione dei bollettini per renderli più omogenei e quindi attendibili?

Il grado di pericolo indicato dai bollettini di Province o Regioni confinanti, non può riferirsi alla stessa zona, ma ad un intorno suggerito al redattore dalla localizzazione, e quindi dai dati, dei campi di rilevamento del proprio settore. Il confine amministrativo delle Regioni o Province non ha che un valore indicativo dell’Ente che emette il bollettino. La valutazione per la realizzazione dei bollettini viene fatta sulla base delle osservazioni pervenute giornalmente, alla stessa ora, dai campi di rilevamento sistemati nella zona di competenza. Non è il momento della redazione del bollettino che fa testo, ma il momento del rilevamento dei dati sui campi.
La posizione di questi varia da zona a zona per cui, non essendo possibile raffittire i campi in modo abnorme, è giocoforza, mediare i risultati in relazione alle esigenze dell’Ente che emette il bollettino, che non potrà mai dare informazioni puntiformi, ma riferite ad un intorno piuttosto vasto. Sta all’utilizzatore interpretare correttamente il bollettino in relazione alla località in cui vuole andare e, se si trova in località di confine della competenza della redazione dei bollettini, mediare tra le due edizioni. Per questo i bollettini devono ritenersi solo orientativi e l’escursionista, acquisite le informazioni a carattere generale, deve anche fare una propria valutazione sul posto. Nell’ambito delle organizzazioni dell’AINEVA la nomativa per i rilevamenti e la redazione dei bollettini è comune.

Si organizzano spesso interessanti e qualificati convegni sulla sicurezza in montagna e contro il rischio di valanghe, però fatalmente riservati a pochi addetti ai lavori perché si svolgono magari in località lontane centinaia di chilometri dalle città e della durata di uno o più giorni. Come mai non si sfrutta internet per divulgare e magari trasmettere in streaming queste giornate ad un pubblico più ampio? Perché questi convegni non sono resi disponibili online dopo il loro svolgimento? Ho fatto queste domande ad un esperto che partecipava a questi convegni e mi è stato risposto che sì, sarebbe una bella idea ma non si può perché… i relatori sono gelosi! E’ un peccato che non si possa fare divulgazione attraverso un mezzo così potente come la rete ma si preferisca fare questi convegni tra “pochi intimi”. Cosa ne pensi?

Sarebbe una cosa utile ed interessante. Non so perché non venga realizzata: forse per mancanza di iniziativa da parte degli organizzatori. L’ipotesi della gelosia dei relatori mi spaventa e non ci credo. I miei compagni del primo SVI ed io ci eravamo assunti, a cominciare dagli anni sessanta del secolo scorso, proprio come missione morale, la divulgazione delle conoscenze che avevamo acquisito e lo abbiamo fatto sempre, sia pur con i mezzi di allora, con tutte le nostre forze ed il nostro entusiasmo e siamo riusciti a diffondere, praticamente in tutto il Paese, a macchia d’olio, l’esistenza del problema valanghe e dei modi di affrontarle.
In Internet, ora, si trova di tutto ed anche le informazioni utili: bisogna saperle discernere con un minimo di preparazione tecnica a monte. La gelosia dei relatori è, comunque, mal riposta in quanto gli eventuali relatori gelosi non hanno competenza per accampare diritti sulle conoscenze che hanno acquisito da chi li ha preceduti. Se, poi, si fanno convegni su qualche cosa di nuovo, ben vengano, ma penso che lo scopo di questi debba essere proprio la divulgazione delle conoscenze. Per questo non c’è niente di meglio che Internet ed è anche utile l’opera, questa volta meritoria, dei media, se le informazioni non vengono travisate, come purtroppo succede spesso, per incompetenza.

Negli anni recenti abbiamo visto che in caso di incidenti di valanghe qualche amministratore locale arriva addirittura a vietare lo scialpinismo tout court sul proprio territorio. Oppure scattano le denunce, con evidente intento deterrente o punitivo, nei confronti di chi ha provocato la valanga, anche se non ha provocato ferimenti o danni. Gli impiantisti dal canto loro arrivano a vietare la pratica del fuoripista nel loro comprensorio, neanche la montagna fosse di loro proprietà! Altri invocano invece una sorta di patentino, o il possesso obbligatorio dell’Artva (senza considerare la capacità di usarlo). Cosa pensi di queste misure?

Il divieto di praticare lo scialpinismo mi sembra un’assurdità da incompetenti: sarebbe come dire di vietare il paracadutismo perché il paracadute potrebbe non aprirsi, o l’arrampicata in roccia perché potrebbe uscire un chiodo o staccarsi un appiglio eccetera. Il fatto è che i media influenzano talmente a sproposito l’opinione pubblica che gli amministratori temono ripercussioni su di loro a seguito di assurde ricerche di responsabilità a tutti i costi, cosa che sembra diventata di moda.
Quanto al provocare la valanga esistono norme di legge sul distacco di valanghe in relazione a varie modalità di distacco: Codice Penale Titolo VI Capo I – Dei delitti contro l’incolumità pubblica art. 426, Legge n° 353 del 24/12/2003. L’art. 17 di quest’ultima, in particolare, al comma 2 recita: “I soggetti che praticano lo sci-alpinismo devono munirsi, laddove per le condizioni climatiche e della neve, sussistano evidenti condizioni di rischio di valanghe, di appositi sistemi elettronici per garantire un idoneo intervento di soccorso”. E’ palese l’imperfezione del testo: secondo la legge L’ARTVa deve essere portato dove esistono evidenti condizioni di “rischio” di valanghe. Dal momento che la valanga è una trappola nascosta, il “rischio” non è quasi mai evidente e, dove è evidente, mi auguro che nessuno ci vada, neppure con l’ARTVa, anche se oggi non ne sono più tanto sicuro. Chi stabilisce, inoltre, che in un determinato punto il “rischio” è evidente?
In sostanza, per la legge, non occorrerebbe portare sempre l’ARTVa, ma solo quando il “rischio” è evidente. In realtà, senza bisogno di fare leggi inutili ed imperfette, basterebbe il buon senso e la raccomandazione dei tecnici che suggeriscono di portarlo sempre, acceso in trasmissione fin dall’inizio della gita, dopo averne ben appreso l’impiego e dopo aver fatto i previsti controlli collettivi di corretto funzionamento. Ho messo tra virgolette la parola “rischio”, in quanto il termine, in questo caso, non è corretto. Il rischio è quello che corre chi affronta un pericolo; nella legge, quindi, non dovrebbe essere usato il termine “rischio”, ma “pericolo”. E se i sistemi non sono elettronici come l’Airbag? La legge sarebbe superata? Personalmente suggerisco, comunque, di portare sempre l’ARTVa, acceso, ovviamente in trasmissione, fin dall’inizio della gita, anche se si indossa l’Airbag: può sempre succedere un malfunzionamento o la necessità di soccorrere qualcuno e il peso in più è trascurabile. L’Airbag, di per sè è sufficiente a garantire elevate condizioni di sicurezza, superiori a quelle dell’ARTVa, anche in caso di condizioni di “rischio” evidente, tuttavia la legge prescrive il sistema elettronico.
Un grado di pericolo anche basso, infine, non preclude l’eventualità di incappare comunque in una valanga, altro che “evidenti condizioni di rischio”! Quanto al patentino, viviamo in un Paese dove le barzellette e le idiozie sono molto diffuse.

Nivologia e valanghe di Luigi Telmon

[1] Nato a Susa in provincia di Torino nel 1932, Luigi Telmon ha vissuto la sua giovinezza a Bardonecchia, dove ha iniziato ad amare la montagna. Quindi è entrato nell’esercito nel Corpo degli Alpini, dove ha accumulato negli anni un’enorme esperienza. La sua preparazione e passione per la montagna è testimoniata da una impressionante serie di qualifiche: istruttore militare scelto di sci ed alpinismo, esperto militare di neve e valanghe, paracadutista, pilota civile, maestro di sci FISI, esperto valanghe del Servizio Valanghe Italiano del C.A.I., istruttore nazionale della Federazione Italiana Sicurezza Piste da Sci (F.I.S.P.S.); istruttore nazionale di nivologia e valanghe del S.V.I.-C.A.I.
E’ laureato in scienze strategiche all’Università di Torino e insignito dell’onoreficenza di Cavaliere al merito della Repubblica. Come comandante del Plotone Alpini Paracadutisti della Brigata Alpina Orobica a Merano (BZ), ha svolto attività sciistica e alpinistica nei gruppi montuosi dell’Ortles – Cevedale (sulla cui vedretta ha effettuato un lancio col suo reparto, mai più ripetuto), delle Alpi Venoste, del Brenta, dell’Adamello-Presanella e delle Dolomiti Orientali.
Successivamente, con l’incarico di Istruttore di sci e di alpinismo alla Scuola Militare Alpina di AOSTA (S.M.Alp.), ha approfondito la conoscenza delle Alpi dal Piemonte alle Dolomiti. Ha operato nei gruppi del Weissmies e del M. Bianco durante periodi di addestramento trascorsi rispettivamente alla Scuola di Montagna dell’Esercito Elvetico di Andermatt ed alla Scuola di Alta Montagna francese di Chamonix. Assegnato alla Sezione Studi della S.M.Alp., ha posto le basi per la realizzazione dell’attuale Servizio Meteomont e si è dedicato all’ammodernamento dei materiali e delle tecniche nell’ambito delle Truppe Alpine.
In tale campo ha collaborato anche con la Commissione Materiali e Tecniche del C.A.I. ed ai lavori dell’U.I.A.A. (Union Internationale des Associations d’Alpinisme) per l’omologazione di materiali alpinistici. In particolare ha sperimentato i primi ARTVa facendone realizzare un modello per le Truppe Alpine poi diffuso anche in ambiente civile. Per la sua lunga esperienza e gli anni di studio sulle valanghe è considerato tra i maggiori esperti in Italia. Attualmente, lasciata l’attività meteonivologica e alpinistica, vive a Vigo di Fassa (TN) dove, nella piacevole condizione di pensionato, si cura dell’orto e del giardino. 

Aprile 6, 2013
di Agh
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Zaino da escursionismo, come sceglierlo

Zaini per tutti gusti

Zaini per tutti gusti

Il cambio di stagione di solito, estivo o invernale, è una buona occasione per pensare di cambiare il nostro zaino vecchio e usurato.

Sul mercato esistono ormai centinaia di modelli di tutti i colori e fogge e orientarsi non è semplice. Vediamo quali sono le caratteristiche a cui prestare maggiore attenzione. Anzitutto va detto che lo “zaino universale”, buono per tutte le stagioni e per tutte le attività, non esiste. Così come non usereste la stessa giacca o paio di scarpe in inverno, autunno, estate e primavera, chi va in montagna seriamente e assiduamente deve “rassegnarsi” all’idea di avere almeno un paio di zaini. Diciamo uno estivo e uno invernale, oppure uno leggero e uno medio, secondo le esigenze. Un buon zaino è confortevole, si possono sistemare tutte le cose necessarie ed averle a portata di mano quando servono, rende l’escursione meno faticosa, evita quei dolori alle spalle o alla schiena in grado di rovinare una gita in montagna.

Qui ci riferiamo principalmente dunque ad uno zaino da escursionismo estivo per una giornata. Discorso a parte riguarda gli zaini per uso invernale, che devono avere ovviamente caratteristiche particolari: tra le più ovvie le cinghie di fissaggio degli sci o ciaspole, fettucce per agganciare piccozze e bastoncini da sci, ramponi, casco, e scomparti interni per contenere pala, sonda e quant’altro sia necessario. Torneremo sull’argomento con un post specifico.

Costo
Lo zaino è uno strumento assolutamente fondamentale nell’escursionismo e non si dovrebbe mai lesinare sul suo acquisto. Mettiamo da parte quindi, almeno in questo caso, la taccagneria. Le marche più note garantiscono una buona qualità dei materiali. Per citare le principali: Ferrino, Millet, Berghaus, Deuter, Lowe Alpine, North Face, Salewa, Vaude, Mammut. Un buon zaino estivo da 35 litri per escursioni giornaliere difficilmente può costare meno di 60 euro. Un prezzo “giusto” per un buon zaino potrebbe essere tra 80 e 120 euro. Personalmente, mi trovo bene con gli zaini Deuter in versione leggera (poco più di 1 kg). Ne ho due, uno da 28 e l’altro da 32 litri (per l’inverno uso un più pesante e voluminoso Millet da 35 litri). Tuttavia non esiste una regola universale, ciascuno dovrà scegliere lo zaino in base alle proprie esigenze ed abitudini.

Tessuto
Il tessuto più utilizzato è l’intramonabile Cordura, disponibile in varie grammature, resistente e abbastanza leggero. Di recente si stanno imponendo in commercio tessuti alternativi più leggeri (ripstop), di carattertistiche simili ma meno robusti.

Capacità
Uno dei primi requisti di uno zaino da considerare è il “litraggio”, ovvero la capacità. Bisogna dimenticarsi gli zaini estivi troppo piccoli da 15-25 litri, perché in montagna il tempo può cambiare velocemente ed è sempre opportuno avere con sé il vestiario adatto, comprendente anche pile/maglione e giaccavento imbottita, che sono capi piuttosto voluminosi. Zaini troppo piccoli devono essere stipati all’inverosimile, sono scomodi da portare e poco pratici. Peggio ancora se si è costretti a legare all’esterno i capi che non entrano nello zaino perché non c’è spazio sufficiente. Meglio uno zaino leggermente abbondante piuttosto che uno troppo piccolo, col quale dovremo bestemmiare ogni volta per fare entrare la giaccavento o il maglione, col rischio di far “esplodere” cerniere e cuciture. Normalmente uno zaino per un’escursione da un giorno e di buona capienza si aggira intorno ai 35 litri di capacità. Alcuni hanno una specie di “prolunga” a soffietto incorporata che può aumentare la capacità di circa 10 litri. Utile ma non indispensabile. Lo zaino è una cosa molto personale e va assolutamente provato in negozio, regolando bene le varie cinghie e spallacci e possibilmente caricato con 7-8 kg di peso: è molto importante che lo sentiate comodo, senza sentire “dolorini” strani o sporgenze nella schiena o alle spalle. Se già non vi sembra comodo in negozio, figuratevi dopo 3 o 4 ore di marcia a pieno carico.

Schienale
E’ molto importante, perché lo schienale è la zona di maggior contatto con il corpo. Specie per chi suda parecchio, sono molto utili “le retine” che tengono la schiena distanziata dallo zaino, favorendo ventilazione e traspirazione. Altri zaini hanno una curvatura, tramite stecche interne in alluminio o plastica, che hanno lo stesso scopo, cioè evitare il contatto diretto tra schiena e zaino per far circolare l’aria. Un tempo erano diffusi gli zaini con basto rigido in acciaio o alluminio, specie per trasportare carichi pesanti, ormai caduti in disuso e sconsigliabili.

Cinghie e spallacci
Devono essere regolabili, adeguatamente imbottiti (senza esagerare). Importante la fascia ventrale, che ha la funzione di scaricare in parte il peso dello zaino sulle anche, “liberando” spalle e cassa toracica e conseguentemente anche il respiro.  Alcuni modelli hanno anche una fascetta che unisce gli spallacci all’altezza del torace per evitare sbilanciamenti dello zaino a pieno carico: se è troppo bassa però può comprimere il petto e quindi il respiro. E’ importante che tutto il cinghiame sia ben regolabile sulla vostra fisionomia.

Tasche e scomparti interni
I modelli migliori hanno varie tasche e scomparti molto utili. Uno zaino con scomparto alto/basso, con cerniere d’accesso distinte, permette di mettere le cose che si usano di meno nella parte bassa, senza dover svuotare lo zaino ogni volta. Molto utili le tasche porta bottiglie o thermos (evitano che si rovescino durante la marcia con possibili perdite di liquidi). Indispensabile anche il tascone interno per poter trovare subito piccoli oggetti come ad esempio la pila frontale, il portafoglio, i guanti, il coltellino, le chiavi della macchina eccetera. Alcuni modelli più recenti hanno, oltre all’apertura in alto, anche una grande cerniera verticale sul dorso, che permette di aprire lo zaino in senso longitudinale per trovare più rapidamente quello che serve.

Predisposizione sacca “camel bag”
Molto utile il gancio interno per la sacca dei liquidi (camel bag), grazie al quale la sacca non va “in giro” per lo zaino ma rimane in posizione verticale e aderente alla schiena. Negli zaini predisposti c’è anche il foro (a volte doppio dx/sx) per far passare il tubicino col boccaglio. Sugli spallacci una fettuccia elastica serve per bloccarlo in posizione vicino alla testa. Comodo: altrimenti il tubo deve fare un giro più largo e si corre il rischio che non arrivi comodamente a portata di bocca quando serve.

Tasche esterne, retine etc.
Le tasche esterne sono un aspetto controverso: c’è chi le detesta e chi le ritiene invece indispensabili. Potrebbero essere scomode per chi arrampica o fa ferrate: aumentando la volumetria dello zaino, possono impigliarsi ed essere fastidiose. Ma per l’escursionismo sono irrinunciabili: possono contenere la bottiglia d’acqua, occhiali, berretto e quant’altro è utile avere a immediata portata di mano. Ottime quelle a scomparsa, che possono essere ripiegate all’interno quando sono vuote. Valide anche le tasche con “retina”, che si espandono alla bisogna. Le tasche devono comunque essere sempre laterali e non posteriori, in modo da poter prendere qualcosa senza essere obbligati a fermarsi e togliere lo zaino. Il carico più confortevole è quello che sta maggiormente aderente al corpo e ben distribuito sulla schiena senza creare sbilanciamenti. Vietato appendere oggetti all’esterno che sbatacchiano fastidiosamente durante la marcia. La patella che copre la parte superiore dello zaino ha di solito una o più tasche, esterne o interne, sempre molto comode. Importantissimo che una di queste sia abbastanza grande da contenere agevolmente la cartina (abbiamo visto su certi zaini tasche così strette che era impossibile infilarcela!)

Antiacqua
Nessun zaino resiste a lungo sotto la pioggia battente. I modelli migliori hanno una capottina, di solito incorporata in una tasca sul fondo, che ripara lo zaino in caso di pioggia. Se lo zaino ne è sprovvisto si può comprarne una per pochi euro, verificando sia adatta al proprio.

Cinghie, corde, cerniere, ganci eccetera
Le cerniere devono essere robuste e ben scorrevoli, di dimensioni adeguate anche da poter essere usate con i guanti. Quelle esposte dovrebbero essere protette da una patta per evitare che entri l’acqua in caso di pioggia. Idem i ganci, devono essere robusti e pratici da usare con o senza guanti. Preferire la patta con gancio unico, più pratica e rapida da aprire e chiudere. Alcuni modelli hanno retine, cinghiette e cordini vari per fissare oggetti all’esterno: in linea di massima possono essere utili ma non indispensabili. Gli oggetti legati esternamente (comunque leggeri) si possono perdere, e inoltre aumentano il volume del carico creando impaccio. Alcuni modelli hanno delle cinghie di compressione laterali per comprimere meglio lo zaino, quasi inutili se si viaggia leggeri per un giorno. Molto utili invece, anzi indispensabili, sono le fettucce e le asole elastiche per fissare i bastoncini da trekking chiusi, o una piccozza.

Colore
Gli zaini in commercio si trovano in tutte le colorazioni possibili e immaginabili. Al di là del gusto estetico, che è soggettivo e sempre opinabile, vale un ragionamento di fondo: i colori sgargianti sono utili per essere localizzati con più facilità in caso di difficoltà o soccorso. Se siete infortunati su una parete di roccia o su un versante boscoso, indossando abbigliamento e attrezzature con colori neutri rischiate di risultare pressoché invisibili a chi vi cerca, magari dall’alto con l’elicottero. Colori più “mimetici” con tonalità di verde-grigio sono più adatti se vi piace osservare la fauna o fare caccia fotografica, evitando di spaventare anzitempo gli animali (va da sé che anche il resto dell’abbigliamento deve essere consono).

Aprile 4, 2013
di Agh
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Taglia, taglia che almeno tu ti salvi!

campanilbasso

Le Dolomiti di Brenta con il famoso pilastro del Campanil Basso (C) foto Agh

Cesare Maestri e Dino Buzzati, un binomio prodigioso dal quale è scaturito questo epico racconto pubblicato nel 1954 sul Corriere della Sera, tratto da “Cronache Terrestri”. Il celebre “Ragno delle Dolomiti” è impegnato assieme al compagno Luciano Eccher sul Campanil Basso, quando un chiodo cede improvvisamente…

Cesare Maestri (C) foto Agh

Cesare Maestri (C) foto Agh

TAGLIA, TAGLIA, CHE ALMENO TU TI SALVI
di Dino Buzzati

Questa è la storia di una delle avventure più paurose che ricordi l’alpinismo dolomitico. È accaduta questa estate [1954, N.d.R.] sul Campanile Basso di Brenta, picco finissimo per il meraviglioso slancio della sua architettura e la difficoltà delle numerose vie di salita. Bellissimo da ogni versante, da ogni versante è stato attaccato e vinto. Ormai non ha più una parete, spigolo, fessura, strapiombo dove non sia passato uomo. La via normale, di quarto grado, è già una scalata rispettabile. Tutte le altre sono difficili.
Alcune toccano il massimo limite delle possibilità cioè il sesto grado. Di sesto grado è appunto il vertiginoso itinerario tracciato da Marco Franceschini e Stenico sullo spigolo Nord-Ovest del cosiddetto Spallone, del Campanile. È un impressionante pilastro giallo che balza dalle ghiaie per 370 metri protendendo in fuori i baldacchini di terribili strapiombi. Ne volle rifare la scalata, due mesi fa, la guida Cesare Maestri con l’amico Luciano Eccher, di 26 anni. Benché estremamente difficile, l’impresa non era troppo preoccupante per Maestri che ne aveva fatte anche di peggio e per di più da solo, con prodigi di coraggio e di raffinati acrobatismi. In quanto a Eccher, era un compagno degno di lui e affiatatissimo.
Difatti, pur avendo deviato dalla via originale e incontrato ostacoli anche maggiori, i due superarono brillantemente i primi 170 metri, che sono i più duri. Verso sera Maestri, dopo una delicatissima traversata sull’orlo di uno strapiombo spaventoso, approdò a un piccolo ma sicuro terrazzino. Gli restavano sì ancora 200 metri di parete, ma assai meno impegnativi. La vittoria per così dire, era già in tasca. Meno male, perché la notte stava avvicinandosi e si era messo a nevicare. Maestri piantò tre chiodi assicurandovi la corda e poi disse al compagno di venire. Eccher compì la traversata e giunse quasi al terrazzino. Maestri, che via via ritirava la corda, vide spuntare la sua testa, e lo calcolava già al sicuro quando fulmineamente il fatto accadde. “Luciano mi guardava sorridendo, – racconta Maestri, – ma all’improvviso ha fatto una curiosa smorfia come se fosse seccato, poi è sparito sotto.”
Nei punti più difficili, dove mancano gli appigli e specialmente sugli strapiombi quando la roccia viene in
fuori, gli alpinisti non solo piantano chiodi per poter procedere ma talora a questi chiodi fissano delle staffe
per appoggiarvi i piedi. Eccher si sosteneva appunto a una staffa con tutto il peso quando il chiodo si staccò. Le mani non avevano presa sufficiente. Fece un volo. Di sotto non c’era che il vuoto. Il terrazzino infatti rappresentava l’orlo di un tetto che sporgeva in fuori per alcuni metri. Eccher è tutt’altro che un pancione ma i suoi 70 chili nessuno glieli leva. Lo strappo fu tale da fare saltar via un secondo chiodo poco sopra la staffa e poi un terzo proprio quello su cui Maestri stava “facendo assicurazione”. Partiti i tre chiodi (ne restavano altri due sopra il terrazzino ma vi era fissato il capo opposto della corda, quello dalla parte di Maestri) il peso del corpo proiettato nel vuoto si sfogò tutto sulla spalla e sulle braccia della guida. Fu uno strattone tremendo. Maestri ne restò letteralmente piegato in due e andò a sbattere con la faccia sulle rocce. Nonostante il dolore tenne con tutte le sue forze. Accartocciato quasi a testa in giù sull’aereo terrazzino, semiaccecato dal sangue che gli grondava dalla fronte, le braccia convulsamente strette a trattenere la corda, Maestri per qualche istante si sentì perduto. Poi a poco a poco si riebbe.
«Luciano, Luciano, come va?»
“Bene, bene.” Rispose dal basso l’invisibile compagno con straordinario spirito. “Sei giù molto?” “Saranno 5 metri.”
“E puoi toccar la roccia?” “Impossibile, è troppo lontana.” “Allora cerca di venire su a braccia. Ce la fai?“
“Adesso provo.”
Eccher provò. Ma era un’impresa inverosimile, con una corda così sottile, dopo quel tremendo colpo.
Riuscì a sollevarsi un paio di metri ma poi le mani mollarono. Giù di nuovo a piombo. Maestri, in quella sua assurda posizione, fece di tutto per reggere al secondo strappo. Ma un bel pezzo di corda gli sfuggì dalle mani.
“Luciano! Luciano!”
“Niente paura. Solo che a venir su a forza di braccia io non ce la faccio.”
“E adesso quanto sei giù?”
“Adesso saranno 10 metri.”
Un lungo silenzio tra gli alterni mugolii del vento. La neve veniva giù sempre più fitta. Poi la voce di Maestri: “Luciano, ho paura che non resisto più.” “Cesare, – fu la risposta, – taglia la corda che almeno tu ti salvi!”
Questo poi mai, pensò Maestri.
Con sforzo supremo riuscì a sollevarsi un poco così da mettersi in ginocchio.
“Cesare! Cesare!” “Cosa c’è?” “Prova a calarmi per tutto il resto della corda. Forse riesco a toccare le rocce» (era soltanto un’illusione). “Aspetta, adesso provo.”
Fu perché Maestri mosse il piede sotto il quale la corda si era incastrata? Fu perché le sue mani non ressero? Fatto sta che ad un tratto non riuscì più a tenere. Udì il sibilo della fune che strisciava a velocità furiosa sull’orlo del terrazzino, una forza irresistibile lo succhiava nell’abisso.
Guardò i due chiodi superstiti coi due relativi moschettoni a cui era fissata con un’asola la corda. Avrebbero tenuto?
Poi venne il colpo. La corda si tese spasmodicamente. I due chiodi si incurvarono come se fossero di burro, per una minima frazione di secondo sembrarono schizzar fuori dalla fessura dove erano infissi. “Adesso volo anch’io” pensò Maestri. Ma i chiodi miracolosamente resistettero.

Di sotto, Eccher aveva compiuto il terzo volo. Questa volta fino a completo esaurimento della corda. Un tuffo di altri 20 metri buoni. Precipitando guardò in su. Si sentì serrare atrocemente in vita. Rimbalzò in su tre metri almeno. “Impossibile che i chiodi tengano” fu il pensiero “ora vedo schizzar fuori anche Maestri. Ci sfracelleremo insieme.” Poi fu una quiete inverosimile. Lentamente Eccher prese a girare su se stesso. Si chiamarono, cercando di parlarsi.
Ma a quella distanza, più di 30 metri, era difficile. Intanto si era fatto buio. Maestri, sul quale non gravava più il peso del compagno, sostenuto ormai dai chiodi, si levò finalmente in piedi e misurò la situazione. Di tirar su Eccher a forza di braccia neanche a pensarci. L’unica tentare di proseguire lui da solo fino alla vetta scendere dalla parte più facile e andare a chiedere soccorsi. Ma avrebbe fatto in tempo? Sospeso a una corda per la vita, Eccher avrebbe
resistito? In uguali situazioni, più di un alpinista era morto per soffocamento. Per fortuna Eccher è un ragazzo di raro sangue freddo e ottimismo.
Invece di lasciarsi prendere dal panico, si industriò per rendere il meno tormentoso possibile il suo stato. Si passò una staffa intorno al torso così da poter appoggiare la schiena. Altre due staffe le fissò alla corda in modo da potervi introdurre le gambe e così restar quasi seduto.
Poi si disse: “Se Maestri va a cercar soccorsi, posso vivere tranquillo.” Mentre contiuava a nevicare, Maestri
slegatosi, gridò a Eccher: “Arrivederci”, e riprese la salita. Come abbia fatto, con quel buio pesto, a superare 200 metri di buon quinto grado, per noi resta un mistero.
Giunto sullo spallone, contornò il Campanile Basso per la larga cengia battezzata scherzosamente stradone provinciale. E stava per calarsi lungo la via comune quando, affacciatosi alla parete Sud, vide giù una luce che avanzava sul sentierino che porta all’attacco. Chiamò. Era suo fratello Carlo che, preoccupato del ritardo, era salito dal rifugio Tosa. “Corri al rifugio, – gli gridò Maestri, – fa venire su quanti più è possibile con tutte le corde che ci sono. Ma prima va sotto lo spigolo e avverti Luciano che i soccorsi arriveranno; che si faccia coraggio!” Infatti ciò che più temeva era che l’amico si lasciasse vincere dalla stanchezza e dallo scoraggiamento; nel qual caso sarebbe stato perduto.
Ora non restava che aspettare. Maestri riuscì a scovare sulla cengia un buco abbastanza riparato e, meraviglioso
esempio di equilibrio nervoso, ci fece una bella dormita: ciò che era la cosa piu opportuna dopo il travaglio sofferto e in vista di quello che gli restava da soffrire.
Alle 2,30 di notte le guide Bruno e Catullo Detassis e Giulio della Giacoma con tre bravi rocciatori, Mario Fabbri di Trento, Dado Morandi e un altro di Roma, erano sullo stradone provinciale. Al lume incerto delle torce elettriche, dalla sommità dello spallone, Maestri, Catullo Detassis e Morandi furono calati per 110 metri. Maestri e Detassis scesero quindi per loro conto a corde doppie fin sopra il terrazzino, piantarono una bella quantità di chiodi e calarono subito a Eccher due corde, per mezzo delle quali, a trazione alterna, cominciarono a tirarlo su. A ogni strattone guadagnavano una ventina di centimetri.
Il sollevamento durò tre ore e mezzo. Alle 9 del mattino finalmente Eccher toccò il terrazzino. Era pallido come la morte, ma ancora in buone condizioni. “Fa un curioso effetto – disse – rimettere i piedi sulla terra”.
Era rimasto appeso nel vuoto, in maniche di camicia, con un tempo da lupi, 13 ore giuste.

Tratto da: Cronache Terrestri,
“Corriere della Sera”, 1954

Aprile 2, 2013
di Agh
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Luciano Navarini, 40 anni di sci alpinismo

luciano_navarini

Luciano Navarini nel uso amato Lagorai

Luciano, da quanti anni fai sci alpinismo e come hai cominciato?
Posso dire che in effetti sono più o meno 40 anni che pratico lo sci alpinismo. Ho iniziato negli anni ’70 quando da noi ancora non esistevano gli sci specifici, né gli attacchi e nemmeno gli scarponi. Ricordo che la mia “prima” Cima di Cece l’ho fatta partendo dalla fontana di Predazzo con gli scarponi da discesa e con un paio di Roy con attacchi Marker (si alzavano solo di 45°). Se penso all’evoluzione avuta nel campo dell’attrezzatura in questi 40 anni, resto veramente sconcertato.

Hai mai fatto un calcolo approssimativo del numero di gite fatte nella tua lunghissima “carriera” e del dislivello complessivo?
Questo calcolo non l’ho mai fatto, anche perché inizialmente mi piaceva salire i canalini ripidi con sci in spalla (emulando Tone Valeruz… cose di gioventù….) e poi giù, godendo della discesa fine a sé stessa. Bellissime esperienze che mi hanno permesso di acquisire tecnica, esperienza e sicurezza. Nelle guide che ho scritto è stato inserito anche il dato del dislivello totale, ma direi che è poco significativo. Porto questo esempio per rispondere in parte alla domanda iniziale: dal gennaio 2010 sono in pensione e ho scritto i “38 itinerari facili in Lagorài” (ed. 2010) e la “Guida dei Lagorài Cima d’Asta” uscita nell’ottobre 2011 (entrambe di Edizioni31 ndr). Calcolando soltanto questi itinerari (e considerando che certi li ho percorsi anche due volte per controlli vari) sono circa 250.000 metri di dislivello in queste due stagioni. In generale, almeno per come vedo oggi lo sci alpinismo; per me questi dati non hanno molta importanza in quanto l’attività viene fatta da persone che hanno tempi e capacità molto diversi. Per certi sci alpinisti fare 20.000 metri all’anno è già tantissimo; per altri che fanno competizioni, o che lo fanno molto assiduamente, invece, non ci sono limiti. Ecco perché non ha molta importanza il dislivello, perché è sempre relativo alla persona e a ciò che si vuole ottenere da questa disciplina.

Se tu dovessi indicare tre gite sci alpinistiche in Trentino da fare assolutamente?
E’ difficile rispondere, anche perché tutte le salite sono belle e dipende moltissimo da che cosa si predilige: salita, panorama, discesa, oppure tutte tre le cose messe assieme. Bisognerebbe anche fare un distinguo in merito alle difficoltà: tralasciando le difficoltà O.S.A (ottimo sciatore alpinista) e O.S. (ottimo sciatore), rispondo che l’escursione al Monte Cevedale da Malga Mare per panorama, salita e discesa, è molto valida. Valida è pure la salita dai pressi del Passo della Fedaia alla Punta Penia. Visto che ne devo scegliere tre, la Cima Presanella dal Denza, è senz’altro un’altra mèta di “lusso”.

Le tue guide sci alpinistiche sono considerate giustamente dagli appassionati delle “bibbie” per affidabilità, completezza e precisione dei dati. Come fai? Giri con un taccuino per gli appunti? Un registratore? Ti fai aiutare da qualcuno?
Non è facile riuscire a portare su carta la realtà del terreno che percorriamo. Per questo le mie descrizioni sono molto dettagliate, il tutto per dare al lettore più informazioni possibili (io dico scherzosamente, che le mie guide sono un GPS senza pile). Gli appunti presi durante le salite e le discese, li scrivo al momento su carta (ho provato anche con un registratore, ma non mi trovo bene). Una volta a casa riporto tutto sul computer e sono solo io che scrivo e per questo la responsabilità di quanto indicato è soltanto mia. Tutte le mie pubblicazioni hanno avuto il Patrocinio del C.A.I. e della S.A.T., segno che sono “attendibile e fidato”, in quanto questi Enti sono molto severi per dare la massima sicurezza – giustamente – a chi si affida a quanto descritto in un volume. Comunque dietro a tutto questo ci deve essere la passione per questa attività e l’onestà di scrivere la verità senza inventarsi nulla: è sbagliato scrivere un libro “a tavolino” o per sentito dire, oppure incaricando qualcun altro di salire al posto mio. Questo metodo non porta a nessun risultato, anzi, crea molta confusione e smarrimento nel lettore.

Anche tu, come molti trentini, sei un grande estimatore del Lagorai, un paradiso per lo sci alpinismo. Quali sono le zone che preferisci?
Decisamente il Lagorai si presta molto alla pratica dello sci alpinismo. Dato che l’ho percorso tutto più volte, posso dire che la prima guida è nata proprio con l’intento di far conoscere agli amanti di questo sport, che c’erano altre zone oltre alle “solite”. Vi sono itinerari peraltro belli come quelli nella Valle dei Mocheni, la zona delle Pozze e dintorni, o quelli che partono dalla Val Calamento e dalla Val Campelle, il Ponte delle Stue e la Valmaggiore. Questi che ho elencato vengono molto frequentati dagli appassionati. Fermo restando che le zone citate sono posti bellissimi, vi assicuro che ve ne sono molti altri altrettanto belli e forse meno affollati. Mi riferisco alla Val Sorgazza e la Val Tolvà, a tutta la zona di Caoria, il Lago di Calaita, tutte le salite che si possono fare dalla zona del Lago di Paneveggio e, scendendo, lungo tutta la Val di Fiemme con innumerevoli possibilità, senza mai trovare “assembramenti”. Da ultimo tutta la zona della Val di Cembra.

Sei istruttore CAI di sci alpinismo: avrai incontrato nella tua carriera migliaia di aspiranti scialpinisti. C’è ancora gente che ha voglia di fare fatica in montagna? Ti sembra un movimento in crescita?
Così come negli ultimi anni si sono evoluti i materiali, altrettanto è stato con le persone che si sono avvicinate a questa attività. Direi che oggi c’è più gente che ha voglia di fare fatica, rispetto al passato: una delle ragioni potrebbe essere che le attività lavorative sono cambiate. Una volta, dopo il lavoro si era stanchi fisicamente, ora lo si è più di testa e credo che l’attività fisica in senso lato sia e diventi necessaria per “staccare”. Inoltre, l’alimentazione ricca dei giorni nostri aiuta a sostenere fatiche e sforzi. L’attrezzatura facilita l’andar per monti: basta pensare alla differenza di peso di una corda di canapa rispetto alle corde sintetiche attuali, oppure il peso degli sci in legno rispetto a quelli in fibra di carbonio.
Nel corso di tutti questi anni ho fatto, oltre che l’istruttore alla Scuola di Alpinismo e Scialpinismo “G. Graffer” di Trento, moltissime serate culturali sullo sci alpinismo. Continuo a constatare che ci sono sempre più persone consapevoli che soltanto con il bagaglio di esperienze acquisite nei corsi, si può affrontare la montagna invernale con serenità e sicurezza.

Come ti sembra la preparazione tecnica dello sci alpinista medio, anche riguardo alla sicurezza?
A mio avviso la massa di chi pratica questa attività segue le mète conosciute, frequentate e molto battute. Questo denota da un lato la consapevolezza che esiste il rischio, ma dall’altro anche che tanti mancano di esperienza e/o conoscenza. Frequentare i corsi che vengono proposti da tutte le Sezioni della S.A.T. in Trentino e del C.A.I. in altre regioni, è basilare e direi quasi obbligatorio (ci si può anche affidare a una Guida Alpina, ma ci sono dei costi maggiori). Frequentando i corsi si potranno acquisire tutte le tecniche e le informazioni che altrimenti (con il fai da te) diventerebbero poco attendibili e assolutamente inefficaci. I corsi servono soprattutto per essere in grado di muoversi in autonomia, almeno su percorsi non eccessivamente impegnativi, ed essere aggiornati per quanto concerne le tecnologie (A.r.t.va e strumenti di orientamento), la scelta del tracciato, la conoscenza del manto nevoso, la ricerca dei possibili travolti in valanga e per tutte le tecniche per la progressione su ghiacciaio, ecc.

Lo sci alpinismo è uno sport pericoloso?
Non posso affermare che sia uno sport pericoloso: anzi, a paragone di tanti altri sport assolutamente no! Il rischio è insito in tutto quello che si fa nella vita: sta a noi (con il nostro bagaglio di esperienza e consapevolezza) accettarne più o meno il grado del rischio in relazione ai propri limiti. Purtroppo, comunque, non sempre in questa attività l’esperienza può bastare: esiste anche il “fato”, la casualità, l’imponderabile o come lo volete chiamare… In effetti, tante volte si legge: “eppure erano persone esperte, qualificate, ecc…”. Lo sci alpinismo è meraviglioso e non è giustificato che quando avvengono le disgrazie si dica che lo sci alpinismo va vietato (a seconda dei gradi di rischio valanghe) o che qualche amministratore voglia interdire la zona. Se fosse utilizzato lo stesso “metro” per le strade di comunicazione, direi che non potremmo più circolare!

Cosa ti dà lo sci alpinismo e perché lo consiglieresti? E’ uno sport che possono praticare tutti?
Questo sport mi dà la “libertà” di movimento in montagna d’inverno, l’ebbrezza della discesa, la visione di panorami incantevoli che solo il manto nevoso ti può regalare, i silenzi che parlano…senza comunque nulla togliere alla montagna “estiva”. Secondo me è uno sport che tutti possono praticare e a qualsiasi età purché si abbiano i requisiti fisici. Poi ci sono le eccezioni positive, come ad esempio alcuni miei amici che hanno due o tre bypass e salgono alla grande! Ho avuto come “allievi” amici che non sapevano nemmeno dove erano le montagne e si sono avvicinati con molta umiltà e voglia di mettersi in gioco, e ci sono riusciti molto bene. Con il passare dell’età, è ovvio, ci si accontenta di mète più abbordabili e di percorsi più facili, ma non per questo meno interessanti e meno gratificanti.

Ho saputo che di recente ti sei pensionato dal lavoro e che, ora, puoi dedicarti maggiormente al tuo sport preferito, con addirittura 4 o 5 uscite settimanali. Il fisico regge ancora bene dunque…
Il fisico regge ancora bene, certo. In effetti è vero: vado in montagna 3-4 volte la settimana, anche 5 se il tempo lo consente. Cerco di seguire una buona alimentazione e non strafare, in modo tale che il mio corpo possa reagire bene al freddo e alla stanchezza e poi recuperare. Comunque il fatto di avere un buon allenamento aiuta certamente ad affrontare al meglio ogni situazione.

Raccontaci un po’ del gruppo di sci alpinisti “VIP” che hai messo in piedi: chi siete, cosa fate e dove andate… Ci si può aggregare qualche volta?
Siamo un buon gruppo di amici che hanno la stessa passione: “la montagna a 360°”. Collegandomi alla domanda precedente posso affermare che ci sono delle persone che vengono assieme a me e che hanno oltre 80 anni, e si divertono come ragazzini. Ovviamente tutto è rapportato, ma si può stare assieme ugualmente (della serie…arrivo fin dove arrivo e poi vi aspetto…).
A volte il gruppo è formato sia da giovani che da “VIP” (Vecchietti In Pensione). I giovani arrivano molto prima in vetta sicuramente, ma poi aspettano gli altri e si scende tutti assieme. Nel gruppo ci sono poche femmine, ma stiamo cercando di rimediare. Invece i maschi sono tanti per un totale di ca. 30 persone – ovviamente non ci muoviamo tutti assieme, ma ci alterniamo nelle uscite: chi può oggi e chi può domani, ecc. Io sono felice se il gruppo si allarga: per chi desiderasse contattarmi, lo può fare tramite la mia pagina facebook. Sarò lieto di poter condividere la passione per la montagna con chi lo desidera.

Parlaci della tua nuova fatica editoriale, la guida dedicata ai rifugi, quando sarà pronta?
Ecco, qui siamo in un campo meno impegnativo ma sempre meraviglioso del mondo alpino. Il volume dal titolo “Rifugi alpini ed escursionistici del Trentino Orientale” verrà presentato agli “addetti ai lavori” il 9 aprile 2013 alle ore 17.30 presso la Sede della S.A.T. di Trento, in Via Manci 57. Invece, per tutta la cittadinanza, giovedì 11 aprile alle ore 20.30 sempre alla S.A.T. di Trento sarà presentato il volume con una proiezione multimediale in alta definizione dal titolo “Rifugi del Trentino Orientale – Emozioni Parallele”. Si tratta di un bellissimo ed inedito assemblaggio fra due mondi (la pittura e la montagna) completamente diversi, ma per certi aspetti del tutto simili. Il volume ha il patrocinio dell’Accademia della Montagna del Trentino e le presentazioni di Annibale Salsa – Presidente Generale emerito del C.A.I. – e di Ezio Alimonta – Presidente dell’associazione dei Rifugi del Trentino. Nel volume trovano posto tutte le informazioni che servono per andare in montagna, almeno con un piccolo bagaglio di notizie utili e in siucurezza. Vengono valorizzati i toponimi in lingua Mochena, Ladina, e Cimbra. I rifugi trattati sono 88, tutti inseriti nell’elenco ufficiale della Provincia Autonoma di Trento. Vengono descritti gli accessi agli stessi e, da questi, anche delle proposte di percorso o di salita alle varie cime limitrofe.

Infine qualche consiglio per chi, stufo magari di sciare sulle piste, volesse cominciare a fare sci alpinismo
Come ho già risposto in precedenza, è doveroso seguire un corso di sci alpinismo. Poi si può anche iniziare solamente seguendo gli amici o le persone più esperte, magari con una buona guida in mano che descriva bene il percorso che si vuole intraprendere, le difficoltà e i pericoli. Questo deve essere solo un modo per capire se si è portati: poco dopo (ma veramente poco dopo), è necessario iscriversi ai corsi. Per l’attrezzatura, consiglio di acquistarla di seconda mano, o prenderla a noleggio: quante persone hanno venduto tutta l’attrezzatura “nuova” perché non era lo sport immaginato!
Infine sempre per chi inizia, e non solo, desidero far presente che la montagna invernale va rispettata forse di più che in estate. Gli animali e le piante sono deboli e/o addormentati. E’ necessario cercare di non passare con le lamine sulle piante e in particolare sulle conifere (pino, larice, ecc.). Gli animali (cervi, camosci, caprioli, volatili in genere) vanno guardati da lontano, senza cercare di raggiungerli e senza gridare agli amici dell’avvistamento! Questi animali sono deboli e se vengono spaventati tutte le loro energie vengono utilizzate per scappare, ma a volte non ne hanno molte di scorta e soccombono. E’ bene cercare di vivere la montagna consapevolmente e con rispetto: soltanto così potremo continuare ad apprezzarla e gioirne.

Sito ufficiale di Luciano Navarini: http://luciano-navarini.weebly.com
Pagina facebook: https://www.facebook.com/luciano.navarini.1

Marzo 31, 2013
di Agh
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Estate alpina a Pejo, Valle di Sole (1961)

Un bellissimo e raro documentario d’epoca recuperato fortunosamente: Estate alpina, girato a Pejo e dintorni nel 1961. Documenta tempi e modi di vita in un paese di montagna della Val di Sole in Trentino. Tempi e modi di vivere alle soglie del boom economico che, in pochi decenni, avrebbe cambiato tutto o quasi. In meglio o in  peggio? Difficile dirlo. Ai posteri l’ardua sentenza…

Il soggetto e il montaggio sono di Manlio Goio, regia e fotografia di Tommasino Andreatta.

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