Girovagandoblog

Escursioni in Trentino – il blog del forum girovagandoinmontagna.it

Giugno 29, 2014
di Agh
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Giancarlo Rado, fotografo degli “eroi del quotidiano”

I pastori Valentino, Reanato Diga e Candido Stefani, Motta di Livenza

I pastori Valentino, Renato Diga e Candido Stefani, Motta di Livenza

Propongo con piacere questa intervista a Giancarlo Rado, musicista di professione ma anche grande fotografo, che gentilmente ha accettato di rispondere a qualche domanda.

Di professione sei musicista ma sei noto anche per le tue bellissime fotografie. Se fossi costretto a scegliere, pistola alla testa, tra musica e fotografia, cosa sceglieresti e perché?
Ovviamente sceglierei la musica, perché la considero l’arte perfetta: ha l’astrattezza, è legata al suono che va e viene quindi alla caducità delle cose, ha la capacità di dire cose profonde in modo disarmante, permette (se fatta bene) di avere una profonda coscienza di se stessi, richiede una lunga curva di apprendimento che ti aiuta ad essere umile. Ti permette tramite la sua letteratura di dialogare coi maestri del rinascimento e del barocco che hanno composto i lavori che tu esegui e i cui consigli (sapendoli ascoltare) ti fanno vedere il mondo in un altro modo, ma soprattutto perché ho concerti fino al 2016!

Il pastore Renato Fronza e la moglie Sonia Montibeller, Villa del Conte

Il pastore Renato Fronza e la moglie Sonia Montibeller, Villa del Conte

Ci sono fotografi che hanno passato la loro vita a inseguire personaggi famosi o i cosiddetti vip. Le tue foto invece ritraggono un mondo per così dire marginale e, forse, in estinzione: la montagna, i pastori, i malgari, i contadini… come mai questa scelta?
Si fotografano le persone e si ascoltano le loro storie per conoscere in definitiva meglio sé stessi; queste persone rappresentano gli archetipi dai quali tutti noi discendiamo, sono le persone legate alla terra, al ciclo delle stagioni, ai meccanismi stellari e cosmici che ognuno di noi inconsapevolmente vive, ma che affiorano chiaramente in loro nella loro schietta e talvolta imperscrutabile chiarezza.

I pastori Franco e Julian accendono un fuoco per la notte (Crespano del Grappa)

I pastori Franco e Julian accendono un fuoco per la notte (Crespano del Grappa)

Tu suoni l’arciliuto, uno strumento della musica barocca. In un certo senso anche la tua fotografia è una fotografia “antica”: pellicola 6×6, cavalletto, molto tempo a disposizione per scegliere personaggi, pose e inquadrature. Si può azzardare qualche similitudine tra il tuo mondo musicale e quello fotografico?
La musica barocca richiede, per essere eseguita correttamente, un ritorno alle fonti; ecco allora l’uso di strumenti antichi o di copie moderne ma consapevolmente costruite. Le corde sono di budello, il La non è più a 440 hertz ma a 415 (anche se vi sono varianti tra scuole nazionali nei secoli XVI e XVII); nello stesso periodo ad esempio a Venezia gli organi erano intonati più alti che a Roma, parlo del 1700… L’interprete deve affrontare questo repertorio con umiltà e studio assiduo, specializzandosi magari solo nella musica veneziana, da Monteverdi a Vivaldi, come ho fatto io ed il mio gruppo “I Sonatori de la gioiosa Marca”. In fotografia è più o meno simile: la ricerca della correttezza interpretativa nella ritrattistica, ad esempio, ti spinge ad una conoscenza maggiore del soggetto, ad un dialogo con lui, a conoscere la sua vita, le sue vicissitudini, in modo che il ritratto interpreti correttamente la sua personalità che rivive nei suoi occhi, nella postura, nello sguardo, nell’ambiente che lo circonda, cose che fanno affiorare, se ben guidate, l’implicito che ognuno di noi cela. Ecco allora che un tipo di fotografia “lenta”, come quella che io pratico, diventa una risorsa. Il tempo passato a montare il cavalletto, piazzare l’Hasselblad, misurare la luce, mettere a fuoco, abbassare lo specchio e scattare, equivale al tempo passato per accordare lo strumento e far rivivere dentro sé stessi la musica che verrà evocata dalla partitura.

Maria Camatta, pensionata, Mareno di Piave

Maria Camatta, pensionata, Mareno di Piave

Come hai iniziato a fotografare? Hai avuto dei maestri? Ti ispiri a qualche fotografo in particolare?
Ho cominciato a fotografare seriamente quando mi sono reso conto che avevo delle storie dentro di me da raccontare. Erano storie della mia infanzia passata a Oderzo, in campagna, in compagnia degli animali, dei contadini, scandita dalla radio che trasmetteva le canzoni che mi trasportavano in un mondo lontano. Il racconto di questo mondo ha dato origine al lavoro fotografico sui pastori, che è durato circa sei anni. Devo dire che non ho mai frequentato un corso di fotografia, ma i miei maestri sono quei fotografi che in maniera silenziosa ed anonima hanno fotografato la vita nel nostro paese nel secolo scorso e la cui opera è consultabile liberamente nei fondi fotografici che costituiscono un patrimonio di molti enti pubblici e privati. Persone che hanno fotografato le famiglie, le cerimonie, i luoghi di lavoro, i matrimoni, i lutti, ed hanno così stilato un atlante veritiero dell’Italia.

Andrea Salvotti, operatore subacqueo, molo frangiflutti al largo del bagno Ausonia, Trieste

Andrea Salvotti, operatore subacqueo, molo frangiflutti al largo del bagno Ausonia, Trieste

Le tue foto sono spesso “posate”, cosa che di solito molti fotografi cercano di evitare perché i soggetti, anche inconsapevolmente, tendono a mettersi in posa o si irrigidiscono. Al contrario i tuoi soggetti appaiono molto naturali e a loro agio: immagino ci sia dietro molta preparazione allo scatto ma soprattutto una ottima confidenza con le persone riprese. Come fai? I montanari oltretutto sono spesso diffidenti o indaffarati, ti è mai capitato che qualcuno si rifiutasse di farsi fotografare?
Le persone ritratte guardano in macchina perché questo è quello che chiedo, è come se si guardassero allo specchio e si riconoscessero. Non si arriva subito a questo, ma seguendo un percorso di attenzioni e dialoghi che mirano a far capire alla persona il risultato che voglio raggiungere. E quello che viene richiesto è il semplice guardare, andare oltre il sorriso, cercando di celare l’emozione per raggiungere una neutralità, come essere soli con sé stessi e studiarsi senza che ci sia nessun altro. Non è facile, richiede concentrazione, dura pochi secondi e si deve essere pronti a scattare, perché l’incanto dura poco e non si ripresenta più. Questo modo di fotografare ha come presupposto che tu ami la persona che ritrai, ti deve piacere quello che fa, come vive, come parla e come si muove. Poiché ci sono dei meccanismi neuronali “a specchio”, la cosa diventa reciproca e spariscono le diffidenze e le resistenze. Bisogna imparare la lingua del soggetto ed immedesimarsi, farlo sentire personaggio. E’ chiaro allora che lo scatto diventa l’ultima cosa.

Il pastore Caterina De Bonis, Tesis, Pordenone

Il pastore Caterina De Bonis, Tesis, Pordenone

Tre personaggi o situazioni che hai fotografato che ti hanno particolarmente colpito e perché
Uno scatto che mi ha molto colpito è stato quello di Francesco Pancino, ricercatore dell’Istituto Pasteur di Parigi, componente dell’equipe che nel 2008 prese il Nobel per la medicina per gli studi sull’AIDS. Francesco era stato accusato di banda armata nel 1977 ed era entrato in clandestinità. Rifugiato in Francia, aveva ottenuto la grazia. L’ho fotografato nella casa dei genitori a Segusino, durante le ferie, dietro una vetrata che alludeva alle grate di una prigione. Un altro ritratto che mi ha colpito profondamente è quello di Luigi Zortea, sindaco di Canal San Bovo, morto nell’incidente aereo al largo delle coste brasiliane qualche anno fa. Avevo scattato la foto un mese prima, lui non l’aveva ancora vista: mi chiedo talvolta, ingrandendo la foto e guardando i suoi occhi, se non si possa leggere in essi una consapevolezza del suo destino futuro. Devo poi ricordare la foto recente, che amo particolarmente, del pastore Angelo Paterno. Aveva perso al Prà dei Gai settecento pecore nel Livenza che era esondato. La giornata era trascorsa febbrile nel salvataggio degli animali sopravvissuti, i quali avevano trovato asilo nella fattoria della famiglia Moras. Il giorno successivo il disastro, ero passato con mia moglie per trovare il pastore. La famiglia Moras ci aveva invitati a pranzo: la tavolata era composta da venticinque persone, tra pastori familiari e gente che aveva dato una mano. Ho fotografato la tavolata, ecco per me questa foto rappresenta il senso dell’ospitalità, dell’aiutare le persone in difficoltà, del sapersi spendere per gli altri, del condividere le difficoltà.

Il pastore Giovanni, San Vito di Valdobbiadene

Il pastore Giovanni, San Vito di Valdobbiadene

Come si svolge una tua tipica giornata di ripresa fotografica? Ti metti d’accordo preventivamente o vai direttamente dalle persone che vuoi fotografare? Fotografi tutti indistintamente o scegli solo le persone che ti ispirano?
Le giornate non sono tutte uguali, talvolta ti muovi perché hai preso appuntamento con una persona, talvolta invece non sai chi troverai, ma conosci la situazione che andrai a fotografare. La scorsa settimana ho tenuto una conferenza su Avedon allo Sherwood Festival di Padova, su invito del gruppo fotografico legato al Centro Sociale Pedro. Sapevo che erano tutti ventenni, ragazzi e ragazze, molto motivati, gente che vive pienamente quello che fa, con idee profonde e radicate, gente con ideali, che ha una visione della società e della vita, persone ebbre di convinzione e voglia di fare. Sono venuti fuori sette ritratti di uno spaccato giovanile nel quale ho riconosciuto me stesso e mi sono immerso. Per converso, la settimana precedente avevo visitato l’Hospice Casa Tua Due di Belluno, un centro per malati terminali: ho fotografato il direttore, la psicologa, tre infermiere e tre pazienti terminali. Ecco, ricordo ancora il silenzio, il sussurrare, il colore rosa delle pareti, la professionalità degli operatori, lo strazio che si legge nei volti dei pazienti e la disperazione dei familiari.

Il pastore Saverio Fontana a Tauriano (Pordenone)

Il pastore Saverio Fontana a Tauriano (Pordenone)

Non ti sei fatto affascinare, come molti, dal digitale: usi se non sbaglio una Hasselblad 6×6 con una sola ottica, l’obiettivo “normale”: niente grandangoli né teleobiettivi. Come mai questa scelta?
L’uso dell’Hasselblad risiede nel fatto che ho cominciato il mio lavoro “Italians” con quella macchina e con quella finirà. Non è naturalmente solo questo: contrariamente a quanto si possa pensare sono fotocamere facili da usare, otticamente eccellenti. La figura proiettata nel pozzetto ti dà già l’idea di quello che sarà il risultato finale, non puoi sbagliare. Uso l’80 mm che è la lente più luminosa ed economica del sistema C, è un obiettivo neutro, f. 2,8 di apertura, come ciò che io voglio dai miei soggetti: naturalezza, normalità e luminosità. La quasi totalità dei ritratti è fatta con questa lente.

Carmen Vassallo, titolare del Circo Coliseum Roma, Treviso

Carmen Vassallo, titolare del Circo Coliseum Roma, Treviso

Con il tuo bellissimo progetto fotografico “Italians” sei in un certo senso sceso dalle montagne per affrontare anche soggetti che vivono in pianura e fanno mestieri meno “estremi” rispetto a malgari e pastori, come artigiani, commercianti, impiegati… Come mai questa scelta? La tua è una sorta di indagine sociologica per immagini, ma cosa vuoi o vorresti rappresentare esattamente?
Le persone che compongono il romanzo Italians sono gli eroi del quotidiano: dopo aver fotografato la gente legata alla terra, il lavoro continua con gli altri tasselli che compongono il nordest italiano, la gente che lo anima e che abita nelle vicinanze dei fiumi che vanno nell’Adriatico, Piave, Sile, Brenta, Livenza, Tagliamento. Si entra nelle case delle persone, nei luoghi di lavoro, nelle scuole, negli ospedali ma anche nei luoghi di aggregazione, negli spazi occupati: è un grande affresco con una polifonia di voci che assomiglia alle Canzoni vocali e strumentali a quattro cori e 20 voci di Giovanni Gabrieli, maestro di Cappella in San Marco a Venezia a fine ‘500. La differenza è che queste persone, fissandoti, ti interrogano, e nei ritratti più riusciti ci si riconosce, vi è una sorta di compartecipazione alla vita emotiva e personale del soggetto. E’ l’Italia che sta cambiando e lo fa con sofferenza.

Marcello Da Dalto nella sua vigna a Vazzola

Marcello Da Dalto nella sua vigna a Vazzola

Oggi sembra difficile trovare soggetti, storie interessanti e originali da fotografare. Penso ad esempio a Ferdinando Scianna che negli anni ‘60 fotografava la sua Bagheria in Sicilia. L’Italia d’oggi è in buona parte uniformata: dal sud al nord ormai le differenze non sono più così grandi come in passato. Penso anche alle foto di Faganello qui da noi in Trentino, che documentava assieme allo scrittore Gorfer la vita dei contadini nelle valli più sperdute. Oggi anche il contadino viaggia in jeep, usa lo smartphone e perfino internet. Non sembra cioè culturalmente così diverso da chi abita nelle città. Manca insomma quella diversità che rende molte foto interessanti. Cosa ne pensi?
Credo che, pur essendoci un’assimilazione relativa, le differenze persistano e che gli spazi d’indagine mantengano inalterato il loro fascino. Anche in musica succede la stessa cosa: tutti ascoltiamo le stesse cose, si compone più o meno con gli stessi linguaggi, quello che fa la differenza sono i racconti, i temi, l’ispirazione che sono sempre diversi, bisogna saper vedere, intuire, importante è capire quello che succede nella vita o nella testa di chi ti sta vicino, raccontare la sua vita, magari fatta di cose minime ma inarrestabili. Cercare di documentare queste microstorie, che altrimenti non avrebbero voce, è compito del fotografo. Il come farlo dipende dalla sua cultura personale e dalla sensibilità che possiede.

Albino Jobstraibitzer nella sua casa a Fierozzo (Vlarotz), valle dei Mocheni, Trento

Albino Jobstraibitzer nella sua casa a Fierozzo (Vlarotz), valle dei Mocheni, Trento

Personalmente sostengo che quasi tutti sono capaci di fare belle foto in Tibet, o sulle Dolomiti. Ma quello che fa la differenza di un bravo fotografo è la sua capacità di osservazione, che gli fa scattare foto interessanti ovunque, anche nelle periferie degradate delle grandi città o in altri contesti considerati generalmente “difficili”. Sei d’accordo?
Era un po’ il manifesto di Luigi Ghirri,  che aveva lasciato da parte il mito dei viaggi esotici, del reportage sensazionale, dell’analisi formalistica, e della creatività presunta e forzata, e che ha aveva invece rivolto lo sguardo sulla realtà e sul paesaggio che ci sta intorno. Evidentemente, paesaggio inteso anche come paesaggio interiore, ricco di spunti e riflessioni collettive sul dove si sta andando. Si è allargato il concetto di soggetto fotografico e la ricerca coinvolge luoghi ed oggetti spesso nascosti ma con una forte capacità narrativa.

Fabio Zwerger, pastore

Fabio Zwerger, pastore di Lago di Tesero, Val di Fiemme

Tre fotografi tra i tuoi preferiti e perché
Indicherei Richard Avedon per tutto il suo corpus ritrattistico, significativamente “In the American West”, poi August Sander per aver dedicato la propria vita al grandioso progetto “Uomini del XX secolo” e, da ultimo, l’opera del sudafricano David Goldblatt, che ha descritto ambienti e persone impegnate per cambiare le cose in Sudafrica.

I pastori Franco e Julian consumano una frugale colazione (Crespano del Grappa)

I pastori Franco e Julian consumano una frugale colazione (Crespano del Grappa)

Una domanda che avrei potuto farti e non ti ho fatto?
Avresti potuto chiedermi come è stato realizzato il Progetto fotografico Amanti del Vanoi. E’ stata una grande soddisfazione essere partiti da un gruppo di Facebook con 1200 iscritti, aver raccolto dei fondi sufficienti per una mostra ed un esauriente catalogo che si può trovare all’Ecomuseo di Canal San Bovo. I fotografi innamorati della Valle del Vanoi, hanno consegnato le fotografie che abbiamo scelto secondo un criterio tematico per località: Calaita, la Valsorda, la Valzanchetta, la Miesnotta ed altre fino ai pascoli del Brocon. La mostra si compone di 52 stampe 75×50 cm ed il libro catalogo di 180 immagini. E’ stato un lavoro appassionante che invito tutti i lettori del blog a conoscere.

Galleria di foto di Giancarlo Rado

Giancarlo Rado (foto Enrico Colussi)

Giancarlo Rado (foto Enrico Colussi)

Giugno 19, 2014
di Agh
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Parliamo di zecche :)

La zecca conficcata nella pelle

La zecca conficcata nella pelle

Delle zecche, un tempo, non si conosceva neppure l’esistenza. Quante volte mi sono rotolato nei prati da ragazzino senza averne mai vista una! Neppure sapevo come fossero fatte. Negli ultimi 10 anni però, frequentando molto la montagna per escursionismo, ho dovuto fare spesso i conti con questo fastidioso insetto. Ogni anno mi “prendo” regolarmente una decina di zecche e quindi ho imparato, mio malgrado, cosa fare e cosa non fare. Solo in anni recenti è iniziata a diffondersi una certa conoscenza del fenomeno, sia pure sporadica (nelle zone turistiche ovviamente si cerca di evitare l’argomento), anche perché il repellente “ragnetto” può trasmettere gravi malattie e, in taluni casi per fortuna rari, perfino la morte. Non è certamente il caso di fare allarmismi o suscitare fobie, ma il problema non va comunque ignorato o preso sottogamba. Ma andiamo con ordine.

Le varie fasi di sviluppo della zecca

Le varie fasi di sviluppo della zecca

Le zecche
Le zecche sono artropodi ovvero acari appartenenti alla classe degli Arachnidi. Nelle sue varie forme di sviluppo (larva, ninfa, adulto), hanno dimensioni che vanno da circa 1 mm ad 1 cm.

Le malattie
A parte la ripugnanza di trovarsele attaccate alla pelle, le zecche di per sé non sarebbero pericolose. Purtroppo possono però essere portatrici di gravi malattie come il Morbo di Lyme (o borreliosi) e TBE con varie forme di encefalite che sono trasmesse alla vittima con il morso. Per la TBE non ci sono cure, però esiste un vaccino. I focolai di infezione sono di solito limitati a zone variamente circoscritte nelle varie regioni. In Trentino ad esempio la zona tristemente “famosa” è quella della Valle dei Laghi (Laghi di Lamar, Terlago, Cavedine), anche se pare che ormai il rischio TBE sia pressoché diffuso ormai in tutto il territorio provinciale. Le zecche infatti  “migrano” grazie agli animali a cui sono attaccate, quindi la prudenza è sempre opportuna. Eviteremo in questa sede una trattazione medica che non ci compete, concentrandoci invece su come comportarci per limitare il rischio e cosa fare in caso di morso.

La zecca è un parassita
La zecca è un parassita che ha bisogno di succhiare il sangue: topi, ricci, scoiattoli, capre, pecore, caprioli e camosci di solito, ma occasionalmente anche l’uomo. Il morso della zecca è indolore poiché essa inietta una sostanza anestetica: solo dopo ore o qualche giorno può esserci del prurito ed è questa di solito la causa che fa scoprire lo sgraditissimo “ospite”, anche a distanza di giorni. Il “pasto” della zecca può durare molte ore o alcuni giorni, dopodiché si stacca da sola. Niente panico comunque.

Come si toglie una zecca
Le zecche si tolgono nel modo migliore con delle apposite pinzette, acquistabili nei negozi di animali o veterinaria per pochi euro: per la mia esperienza, le migliori sono quelle prodotte dalla O’Tom (sul sito ci sono anche dei video esplicativi). Si infila la zecca nella “forchettina” e poi si ruota delicatamente la pinzetta tirando leggermente finché non si stacca. Non vanno usati liquidi come olio, acetone, alcol eccetera (e neppure mozziconi di sigaretta o fumo come si legge da qualche parte) per uccidere la zecca, che potrebbe in questo modo avere un rigurgito e favorire quindi la trasmissione di patogeni. E’ importante che la zecca sia rimossa totalmente: a volte può accadere che un tentativo maldestro di rimozione provochi il distacco della testa che rimane conficcata nella pelle. Se non si riesce a togliere, meglio andare al pronto soccorso.

Le apposite pinzette per rimuovere efficacemente le zecche. Costano pochi euro

Le apposite pinzette O’Tom per rimuovere efficacemente le zecche. Costano pochi euro

Dopo la rimozione
Il punto del morso va disinfettato e tenuto sotto osservazione per circa 30-40 giorni, periodo in cui possono eventualmente manifestarsi dei sintomi in caso di infezione. Un piccolo ponfo (gonfiore) rossastro e pruriginoso è normale, può durare parecchi giorni e non deve preoccupare eccessivamente.

L’osservazione
Se si nota però un eritema che si ingrandisce o si sposta (il cosiddetto “eritema migrante”) occorre contattare subito il proprio medico. Non sempre l’eritema si manifesta o appaiono sintomi: tuttavia se dopo circa 10-15 giorni si hanno disturbi persistenti tipo mal di testa, nausea, dolori articolari o muscolari, fiacchezza, meglio interpellare il proprio medico. Questi sintomi possono essere scambiati con quelli dell’influenza, cosa che può ritardare la diagnosi. Le malattie trasmesse dalla puntura di zecca, se non curate per tempo, possono avere strascichi invalidanti.

Il vaccino TBE
Da qualche anno esiste il vaccino contro la TBE che consiste in tre punture fatte a distanza di tempo entro l’anno, con successivi “richiami” (1 ogni 3 anni), che garantisce una ottima copertura (quasi il 100%). Per informazioni contattare l’Ufficio Igiene della propria provincia. Per chi abita a Trento, è necessario telefonare per fissare un appuntamento: Ufficio Igiene 0461 90227. Dal 2018 il vaccino è gratuito.

Come evitare le zecche
Ci sono alcune precauzioni utili per evitare il rischio di essere morsi dalle zecche. Anzitutto la quota: generalmente non si trovano a quote superiori ai 1500 metri (perlomeno sono più rare in quanto trasportate  dagli animali selvatici e domestici). Le temperature rigide della notte le uccidono e quindi non riescono a completare il ciclo vitale della riproduzione. A quote inferiori vanno evitate le zone a boscaglia e l’erba alta, dove le zecche si appostano in attesa della vittima. Evitare quindi di sedersi o sdraiarsi nell’erba alta, frequentare zone incolte e pascoli di ovini e caprini. Importante anche l’abbigliamento: sono da preferire pantaloni lunghi, calzettoni, scarpe alte. E’ opportuna comunque, al ritorno a casa, una attenta ispezione su tutto il corpo.

Qui un depliant realizzato dalla Provincia Autonoma di Trento con tutte le informazioni essenziali

Aprile 10, 2014
di Agh
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Se la filosofia “tetteculi” sbarca in rifugio

La foto apparsa sulla pagina FB dell'Associazione Rifugi del Trentino

La foto apparsa sulla pagina FB dell’Associazione Rifugi del Trentino

Sulla pagina di Facebook dell’Associazione Rifugi del Trentino è apparsa in un post la foto di una procace donnina in abiti succinti ripresa da dietro, scattata al rifugio Del Alpes e con la didascalia: “I rifugi del Trentino offrono panorami mozzafiato!”.

La foto ha raccolto 142 “mi piace” e 70 condivisioni. Al prevedibile numero di commenti entusiasti (maschili) e variamente pecorecci, si sono aggiunti però ben presto i commenti critici, prevalentemente femminili ma non solo. Eccone alcuni:

Emma Melison – Direi che è un bello scivolone a valle questo post. 21 marzo alle ore 15.06

Stefi Pellizzari una caduta rovinosa, direi. 21 marzo alle ore 15.10

Sara Filippi – Che caduta in basso, anche voi con queste oggettivazioni della figura femminile, ciao ciao io abbandono questa pagina – 21 marzo alle ore 16.12

Davide Ondertoller – Associazione Rifugi del Trentino comunicazione pessima, nomina politica? roba da licenzio in 4 giorni! fatevi qualche corso di promozione del territtorio, fuori area Tiziano Mellarini. 22 marzo alle ore 0.22

Marinella Scarico
– Potreste postare un miliardo di panorami del trentino invece che questo… vabbè… concordo con Sara Filippi – 21 marzo alle ore 16.32

Le critiche femminili si appuntano soprattutto sul trito e ritrito sfruttamento della figura femminile per ramazzare click. Questo tipo di foto e di pubblicità non mi scandalizza di certo, vorrei invece soffermarmi su un altro aspetto. Premesso che un bel paio di chiappe si guardano sempre volentieri, quello che stride è il contesto. O meglio stride chiamare “rifugio” una struttura che, pur essendo a 2440 metri, del rifugio non ha nulla: zero virgola zero. Basta guardare le foto che propone il Des Alpes: pochissime foto di montagna, molte invece di feste e sballi vari, gazebi alcolici, birra a fiumi, tette e culi, baracconate in maschera sulla neve.

Insomma la peggiore e più becera riminizzazione della montagna. Che mi può anche star bene, per carità, ciascuno faccia quel che gli pare: tanto io in posti simili non ci metterò mai piede e sono sicuro che molti montanari la pensano allo stesso modo.

Festa sulla neve al Des Alpes

Festa sulla neve al Des Alpes

Quello che mi chiedo è come facciano i veri rifugisti che si fanno un mazzo a gestire un rifugio dove non arrivano strade, funivie eccetera, ad accettare di essere accomunati ad un turismo simile. Ma soprattutto: qual è l’idea di montagna che il Trentino e la sua associazione di rifugi intendono proporre?

Settembre 27, 2013
di Agh
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La ferrata più bella del mondo

Via delle Bocchette: uno dei tratti più spettacolari a picco sul vuoto (foto Gaby)

Via delle Bocchette nelle Dolomiti di Brenta: uno dei tratti più spettacolari a picco sul vuoto ((© foto Gaby)

L’Alta via delle Bocchette Centrali è un itinerario davvero fantastico e stupefacente che, sfruttando incredibili cenge naturali, attraversa una delle zone più spettacolari e selvagge delle Dolomiti di Brenta tra paurosi strapiombi, arditi campanili, maestose pareti verticali e forcelle sospese nel vuoto. Questo vertiginoso sentiero attrezzato risulta ancora più incredibile se si considera che fu ideato addirittura negli anni Trenta, da Arturo Castelli e Giovanni Strobele, entrambi dirigenti della SAT – Società degli Alpinisti Tridentini. Fu iniziato nel 1937 e completato, con il contributo di Bruno Detassis, Rizieri Costazza, Celeste Donini ed Enrico Giordani, dopo la Seconda Guerra mondiale.

Il percorso si sviluppa in orizzontale sfruttando delle cenge naturali

Il percorso si sviluppa in orizzontale sfruttando delle cenge naturali (© foto Agh)

La particolarità di questa alta via sta nel fatto che, a differenza delle vie ferrate tradizionali che di solito si sviluppano in verticale per facilitare l’accesso a qualche cima, in questo caso si estende sostanzialmente in orizzontale, sfruttando le vertiginose cenge naturali che un tempo erano conosciute e sfruttate solo dai cacciatori di camosci più spericolati.

Via delle Bocchette

Le lunghissime cenge verso il possente pilastro del celeberrimo Campanil Basso (© foto Agh)

Un’altra caratteristica di quest’Alta Via, che raggiunge la quota massima di 2770 metri pur senza raggiungere nessuna cima, è quella di essere alla portata di qualunque buon escursionista. La ferrata infatti non è difficile ma richiede assoluta assenza di vertigini perché le cenge, in gran parte larghe molto meno di un metro, si affacciano su strapiombi spaventosi. Il percorso è ottimamente attrezzato con cordino ma diversi tratti, anche se meno esposti, sono senza alcuna protezione. Indispensabile comunque il set da ferrata e, a seconda della stagione, piccozza e ramponi per affrontare eventuali nevai o ghiaccio.

Il tratto in prossimità della Bocca di Brenta

Il tratto in prossimità della Bocca di Brenta (© foto Agh)

Le Bocchette Centrali sono un percorso attrezzato con pochi eguali nell’arco alpino e oseremmo dire nel mondo, che hanno reso celebri le Dolomiti di Brenta. Un pensiero e un ringraziamento agli ideatori che, con la loro lungimiranza, hanno realizzato una delle attrazioni turistiche più famose del Trentino e che ogni anno, assieme al tratto più impegnativo delle Bocchette Alte, richiama migliaia di appassionati di montagna. Altro che Suoni delle Dolomiti o i ritiri del calcio!

Info
Relazione con foto sul forum GIM Girovagando in Montagna 

Bocchette Centrali – Dolomiti di Brenta (Trentino Occidentale)
Percorso: dalla Bocca di Brenta m 2552 alla Bocca delle Armi m 2729 (o viceversa), circa 3-3,5 ore.
Partenza da Vallesinella 1513 (a sud Campiglio): punti di appoggio: Rif. Brentei 2182, 3 ore – oppure Rif. Alimonta 2580, 4 ore.
Attrezzatura: set da ferrata (imbrago, casco e moschettoni), piccozza e ramponi

Agosto 26, 2013
di Agh
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Quando il frontline dell’ufficio turistico non capisce una mazza (e banna addirittura il cliente!)

Ferrata dei Campanili sul Latemar

Ferrata dei Campanili sul Latemar

In una recente (bellissima) escursione Traversta del Latemar con la Ferrata dei Campanili mi è capitato di avere dei dubbi su un sentiero riportato erroneamente su una mappa. Tornato a casa, ho trovato su Facebook la pagina turistica della zona “Eggental – Val d’Ega” a cui ho chiesto un chiarimento. E cioè se esiste il sentiero segnato sulla mappa Trekkart che passa a nord di Cima Cornon.

Ricostruisco a memoria la prima domanda (è stata cancellata):

IO: Salve ho fatto di recente la traversata del Latemar e la Ferrata dei Campanili. Vorrei un chiarimento riguardo il sentiero 18 dal bivacco Rigatti in poi, nella mappa acclusa passa a nord del Cornon, mentre i segni sul terreno passano a sud. In viola, nell’immagine, la mia traccia gps che segue fedelmente i segni reali del sentiero, che è riportato peraltro correttamente a sud anche in altre mappe. La domanda è: esiste un sentiero che passa a nord come indicato dalla mappa Trekkart?

La risposta dell’ufficio turistico dimostra che chi ha letto la domanda non ha capito una mazza o ha letto molto distrattamente, la riposta infatti non c’entra nulla con la domanda in questione:

Eggental – Val d’Ega: “Gentile Signor Ghezzer! Esiste ben la traversata del Latemar. È possibile farla da Obereggen con la via Ferrata Campanili del Latemar, poi scendendo dalla Cima Latemar fino alla forcella piccola del Latemar, da lí si prosegue per un sentiero fino al Passo Costalunga. Il sentiero è peró solo per esperti!”

IO: Forse non sono stato chiaro oppure non ha letto bene quanto ho scritto. La domanda era: esiste il sentiero indicato dalla mappa Trekkart che passa a nord del Col Cornon?

Eggental – Val d’Ega : “Il sentiero ufficiale è quello indicato in rosso sulla mappa che arriva al Passo Costalunga. L’altro (traccia GPS) non esiste! È sempre consigliato rimanere sui sentieri segnalati!”

IO: Guardi che la traccia GPS segue esattamente il sentiero!

Eggental – Val d’Ega: “Il sentiero è quello indicato sulla cartina/mappa, altri non esistono!”

IO: Ma perché rispondete a casaccio? Se le cose non le sapete, basta dirlo…

Eggental – Val d’Ega: “? perché date risposte a casaccio??? Potremmo sentirci per telefono per favore? Altrimenti non riusciamo a chiarire via messaggi!”

IO: Riprovo a rifare la domanda: secondo la mappa Trekkart acclusa, il sentiero (rosso) passa a NORD del Col Cornon. Questo sentiero esiste? Io non l’ho trovato perché ho seguito i segni bianco/rossi del sentiero che invece passa a SUD, come testimoniato dalla traccia in viola del mio gps. Il sentiero a sud è riportato su altre mappe. Quindi la domanda è: esiste un sentiero che passa a nord del Col Cornon?

La mappa Trekkart col probabile sentiero fantasma...

La mappa Trekkart con l’improbabile sentiero fantasma che passa a nord del Col Cornon: in viola la traccia GPS indica il percorso fatto seguendo il sentiero reale

La domanda mi pare chiarissima, scritta in italiano comprensibile. Ma la risposta è desolante e incredibile.

Eggental – Val d’Ega: Allora, ancora una volta: esistono solo i sentieri che sono anche segnalati sulle cartine! Altri sentieri NON sono percorribili e non esistono!

IO: Guardi, lasci stare…

Dopodiché il frontline dell’ufficio turistico Eggental – Val d’Ega deve aver considerato il tutto come una gran seccatura, quindi ha cancellato tutta la conversazione e mi ha bannato addirittura dalla sua pagina Facebook! :)))

Agosto 17, 2013
di Agh
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Consumo e degrado del suolo

Periferia di Trento nord

Periferia di Trento nord (© foto Agh)

Segnalo l’interessantissima puntata di “L’altro pianeta” di Laura Bettini su Radio24 dell’11 agosto 2013, dedicata al consumo e degrado del suolo.

Una risorsa vitale che però continuiamo a consumare allegramente, ignorando deliberatamente le conseguenze. Nel testo unico ambientale del decreto 152/2006 non esiste una definizione precisa di “suolo”: diventa così molto difficile, se non impossibile, difendere una risorsa che non è ben definita.

Due docenti universitari impegnati per la tutela del suolo, uno sul fronte urbanistico e l’altro su quello agricolo, Paolo Pileri del Politecnico di Milano e Fabio Terribile dell’Università di Napoli Federico II e Presidente Società Italiana di Pedologia, spiegano le varie problematiche. Lo Stato, le varie amministrazioni locali, non hanno un catasto dal quale capire quanto suolo esiste sul territorio e quanto di questo è consumato, mentre la cementificazione prosegue inarrestabile. E’ un modus operandi inaccettabile.

“E’ come fare la spesa senza sapere quanti soldi si hanno in tasca” dice Pileri. Con l’aggravante che un suolo cementificato “è per sempre”, come diceva la pubblicità dei diamanti: non si può tornare indietro.


(clicca sul pulsante qui sopra per ascoltare la puntata)

Agosto 6, 2013
di Agh
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Il fotografo della natura

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Volpe – © foto di Graziano March

Graziano March è un magnifico fotografo naturalista. Nato a Cavalese in Val di Fiemme (Tn) , dedica alla sua passione praticamente tutto il tempo libero. Ha accettato gentilmente di rispondere a qualche domanda e di questo lo ringraziamo.

Come hai iniziato a fotografare? E perché proprio gli animali?
Ho iniziato a 14 anni, dopo aver ricevuto in dono dal mio primo datore di lavoro una macchina fotografica Kodak instamatic. Mi sono appassionato e ho fatto un corso per corrispondenza (bianco e nero, camera oscura eccetera), più tardi è avvenuto il passaggio alle reflex. La passione per la fotografia naturalistica è nata osservando le acrobazie subacquee di un merlo acquaiolo nel torrentello vicino a casa.

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Ermellino – © foto di Graziano March

Qual è la principale qualità di un fotonaturalista oltre, immagino, ad una dose infinita di pazienza?
Credo che la migliore sia lo studio delle abitudini degli animali.

Come prepari le tue uscite di caccia fotografica? Decidi in anticipo quale animale fotografare? O vai in un certo posto confidando di vedere qualcosa?
Di solito, so cosa posso trovare in un posto, ma a volte ci sono anche delle piacevoli sorprese. Spesso la mia prima ricerca la faccio con il binocolo e, se questa ha successo, torno con la macchina fotografica.

Orso - © foto di Graziano March

Orso – © foto di Graziano March

La tua è un caccia vagante o d’appostamento? Vai da solo o in compagnia?
In questi ultimi anni faccio prevalentemente foto d’appostamento; spesso vado da solo anche se non mi dispiace la compagnia di qualche amico. Nel capanno il tempo sembra non passare mai…

Qual è l’animale più difficile da fotografare? E quello più facile?
Non credo ci siano animali più o meno difficili da fotografare: anche la foto di una semplice cincia, se fatta bene, può dare una grande soddisfazione. La difficoltà sta nel riuscire a trovare gli animali, seguirli e rispettarli, cercando di ridurre al minimo il disturbo e mettendo sempre in primo piano la loro sicurezza. Ricordiamoci che nel loro ambiente siamo sempre noi gli intrusi!

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Volpe – © foto di Graziano March

L’animale che ti piace fotografare di più?
Il mio più grande desiderio è poter fotografare bene i rapaci sia diurni che notturni. Però ogni anno non posso proprio fare a meno di fotografare il merlo acquaiolo e l’ermellino.

Merlo acquaiolo - © foto di Graziano March

Merlo acquaiolo – © foto di Graziano March

Nella tua ormai lunga carriera di fotografo naturalista, immagino ti saranno capitate varie avventure: raccontaci qualche aneddoto…
Ricordo quella volta che andando a fotografare il gallo cedrone -erano le due e mezza di mattina- sul sentiero che percorrevo ho visto venire verso di me le luci di quattro torce. Ero a quota 1700 metri e, pensando di essere solo sulla montagna, non capivo chi potesse essere. Ho avuto un tuffo al cuore quando si sono avvicinati dei militari in assetto da guerra: mi hanno fermato, chiesto spiegazioni e anche i documenti che non avevo con me. Ho provato a spiegare che andavo a fotografare un gallo nero di notte, ma erano scettici e mi hanno scortato fino alla macchina. Era una pattuglia alla ricerca di non so quali rapitori e praticamente si erano persi sulla montagna.

Quali sono le foto di animali che ti danno più soddisfazione?
Ho una particolare predilezione per i rapaci diurni e notturni.

Che consigli daresti, di tipo pratico, a chi desidera iniziare a fare caccia fotografica?
Prima di tutto ci si deve documentare adeguatamente e, per non provocare danni o disturbo agli animali è importante, se è possibile, farsi accompagnare da una persona esperta.

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Ciuffolotto – © foto di Graziano March

Riguardo l’attrezzatura tecnica: quali ottiche e altre attrezzature sono a tuo giudizio indispensabili?
Io credo che più che un corpo macchina buono, sia indispensabile un’ottica di grande qualità.

Graziano March in azione

Graziano March in azione

Quale potrebbe essere un set fotografico minimo per iniziare, senza dover fare un mutuo in banca? Restando alle ottiche Canon che usi da anni, c’è qualche obiettivo in particolare che consiglieresti?
Una macchina reflex senza dubbio, poi un grandangolo per i paesaggi, un buon zoom 70-200 mm e infine il teleobiettivo più caro che ci si può permettere. Per quanto riguarda Canon, uno dei migliori è sicuramente il 300 mm f 2.8, che si può tranquillamente moltiplicare (anelli aggiuntivi che aumentano la focale n.d.r.). Oltre a questo, io uso anche il 500 mm f. 4 a volte moltiplicato con l’anello da 1,4x.

Utilizzi telecomandi, fotocellule o fototrappole per foto a distanza?
Uso solo un telecomando, ma molto raramente. Preferisco essere io a scattare.

Quanto pesa il tuo zaino di solito quando fai una battuta di caccia fotografica? Quante ore cammini?
A volte cammino per alcune ore, ma non facendo caccia fotografica vagante può capitare che mi fermi per tutto il giorno nello stesso posto. Il peso del mio zaino, con il cavalletto, varia dai 15 ai 20 kg.

Immagino che prima di fotografare sia necessario conoscere assai bene gli animali che si vogliono fotografare, le loro abitudini e il loro territorio…
Confermo e direi che è indispensabile conoscere l’animale e le sue abitudini.

Quali sono le zone che prediligi di solito per le tue battute di caccia fotografica?
Io mi muovo soprattutto in Val di Fiemme e lungo la catena del Lagorai, montagne che adoro!

Gallo cedrone © foto di Graziano March

Gallo cedrone © foto di Graziano March

Molti animali sono crepuscolari o notturni, ti capita spesso di passare la notte fuori? Nel caso, come ti attrezzi? E come trascorri le prevedibili lunghe ore di attesa?
Mi capita raramente di rimanere fuori per la notte, ma in questi casi usufruisco di qualche baita che conosco, meglio se in compagnia.

Francolino di monte - © foto di Graziano March

Francolino di monte – © foto di Graziano March

Utilizzi attrezzatura Canon da parecchi anni ormai: cosa ti ha convinto alla fedeltà per questa marca?
Credo sia una questione di fiducia data da tanti anni di collaborazione, ma non penso che le altre marche vadano male.

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Graziano March, autoscatto

Come tanti fotografi di lungo corso, anche tu hai iniziato con gli apparecchi analogici per passare poi a quelli digitali. Pregi e difetti? Qualche nostalgia?
Nessuna nostalgia per l’analogico, l’unico problema del digitale per me è il lavoro di archiviazione: si fanno troppi scatti e gli hard disk sono sempre pieni.

Scatti in raw o jpg? Usi qualche software in particolare per la postproduzione e, se sì, la consideri importante e quanto tempo ci dedichi?
Scatto solo in raw e per la post-produzione e archiviazione uso Lightroom. Dedico poco tempo alla postproduzione, perché non mi piace stare sul pc. Preferisco passare quel tempo nei miei boschi preferiti.

Quali sono i tuoi fotografi prediletti? Hai avuto qualche maestro? Hai imparato da solo o hai fatto qualche scuola o corso?
A parte il mio primo corso per corrispondenza, ho imparato da solo. I fotografi che preferisco sono: Ansel Adams, Stefano Unterthiner, Pierluigi Orler e Sandra Bartocha.

C’è una domanda che avrei potuto fare e non ti ho fatto? 🙂
Sì questa: “Oltre alle mostre che hai già organizzato diverse volte, che cosa ti piacerebbe realizzare con le tue foto più belle?” Un libro sarebbe davvero il mio sogno più grande, un libro che parli della mia passione, che sappia trasmettere emozioni e che abbia soprattutto uno scopo benefico.

Il sito ufficiale di Graziano March

Giugno 25, 2013
di Agh
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L’uomo dei cirmoli

Augusto Girardelli

Augusto Girardelli: l’uomo dei cirmoli (© foto Agh)

Le montagne sono tutte belle, ma la più bella è dove si nasce e dove si vive” diceva Augusto Girardelli, pioniere del turismo sul Monte Baldo, un uomo che ha affrontato sempre la vita con energica baldanza, a volte forse con un pizzico di incoscienza, però sempre sorretto dalla forza di una grande famiglia alle spalle. A 82 anni suonati ha un fisico asciutto che sprigiona ancora energia.

Famiglia Girardelli

La numerosa famiglia Girardelli nel 1938: al centro papà Domenico e mamma Luigia (foto fam. Girardelli)

Augusto iniziò a lavorare prestissimo, come si usava a quei tempi, addirittura a 10 anni. Quelli erano anni duri e in famiglia servivano braccia. Ripeté tre volte la quinta elementare pur di non dover andare alla scuola di Mori che era troppo lontana! Ha fatto il malgaro (“el vachèr”, il vaccaro), il contadino, quindi si inventò albergatore e cuoco. In gioventù era una vera forza della natura, forte come un bue. Fu un ottimo atleta di sci di fondo e discesa: nel ’41, durante il servizio militare nel secondo Reggimento di Artiglieria Alpina, fu campione nazionale dei “giovani fascisti”. Nel 1948 comprò il vecchio Rifugio di S. Giacomo, senza luce elettrica ed acqua, e lo trasformò in albergo. Nel 1958 costruì un nuovo albergo e aprì la prima sciovia della zona.

L'ex Rifugio S. Giacomo diventa un albergo

L’ex Rifugio S. Giacomo trasformato in albergo (foto fam. Girardelli)

Ma sull’Altopiano di Brentonico è conosciuto come “Quel dei zirmoi” (quello dei cirmoli). Trent’anni fa infatti si lanciò nella folle impresa di rimboschire da solo il Monte Altissimo di Nago. Una montagna che lui ha aveva sempre amato profondamente, fin quando da ragazzino vi saliva per le sue escursioni solitarie. Nel 1969 gli capitò il colpo di fortuna: seppe che Malga Pesna era in vendita, e con essa praticamente tutto il fianco est della montagna fino alla cima, oltre il Rifugio Damiano Chiesa. Un sogno! Si precipitò dal proprietario e dopo una rapida trattativa concluse l’affare all’insaputa della moglie Bruna, che quando lo venne a sapere si mise a piangere. “Non la voglio!” disse in lacrime pensando a tutti i patimenti già passati. Ma Augusto era testardo come un mulo. L’albergo ormai era avviato, andava avanti praticamente da solo grazie ai figli.

Uomo dalla volontà di ferro

Un uomo determinato (© foto Agh)

Sentiva ormai di avere una missione da compiere, la missione della sua vita: proteggere la sua montagna, custodirla, difenderla dalle intemperie e dalle valanghe. Iniziò a rimboschire, da solo. Quando raccontò delle sue intenzioni ad un ispettore forestale, questi gli ribatté quasi beffardo: “Te voi piantàr en bosc su quei quatro crozi?” (vuoi piantare un bosco su quelle quattro pietre?). In effetti all’epoca il fianco est dell’Altissimo era brullo e desolato, nell’inverno spazzato continuamente dai venti e dalle valanghe. Anche stavolta Augusto non si perse d’animo, continuò quasi come un forsennato la sua opera, piantando migliaia di alberi su un terreno magro, scavando col piccone e cercando dove c’era più terra, che però era sempre scarsa. Iniziò con larici, abeti e betulle.

Augusto Girardelli con i suoi cirmoli

Augusto Girardelli sulla sua montagna: il Monte Altissimo di Nago (foto fam. Girardelli)

Un giorno gli regalarono dei cirmoli, e lui si innamorò subito di questa splendida conifera d’alta montagna, forte ed elegante, anche se non era tipica della zona. Realizzò anche un grande vivaio per poter incrementare il numero di piantine per rimpiazzare quelle che non sopravvivevano. Ne piantò a migliaia, senza sosta, lavorando ogni volta che era possibile, anche di notte, con qualsiasi tempo. Andò a comprare i cirmoli perfino in Austria quando il suo vivaio si esaurì. Purtroppo una buona parte delle piante moriva per mancanza d’acqua. Decise allora di costruire un vascone sulla montagna nel quale convogliare l’acqua piovana, per placare la sete dei suoi alberi. Gli sperati contributi provinciali però non arrivavano, mentre la siccità continuava e le sue piante morivano una dopo l’altra. Decise di costruirlo da sé, a spese sue. Stese da solo tremila metri di canalizzazioni sul fianco scosceso della montagna per far arrivare l’acqua dove serviva, costruendo anche i pozzetti con le relative diramazioni. Quando il vascone fu terminato poté irrigare i suoi alberi: finalmente non morivano più di sete!

Si annaffiano i cirmoli in quota

Si annaffiano gli alberelli in quota (foto fam. Girardelli)

Intanto continuò ad acquistare i terreni vicini per ingrandire la proprietà. Comprò a caro prezzo anche l’appezzamento della “Sella” pur di poter completare il rimboschimento. Divenne così “l’uomo dei cirmoli”. Sull’altopiano tutti ormai lo conoscevano per la sua folle impresa. Dopo la diffidenza iniziale i paesani, che lo consideravano non del tutto sano di mente, presero a prenderlo in simpatia. Tanti ammiravano la sua caparbietà, la sua determinazione, la sua forza di volontà incrollabile. Ricevette degli aiuti, ed infine arrivarono anche i tanto sospirati contributi. Il suo sogno si concretizzò anno dopo anno.

Girardelli sulla montagna, felice tra i suoi cirmoli

Augusto sulla montagna, felice tra i suoi cirmoli (foto fam. Girardelli)

Dopo trent’anni di lavoro, si calcola che abbia piantato circa mezzo milione di alberi su un’estensione superiore ai 100 ettari, gran parte dei quali sono ancora in vita e formano uno splendido bosco di cirmoli. Quando Augusto torna dalla montagna e qualcuno gli dice “Belli i tuoi cirmoli” lui ribatte pronto: “I nostri cirmoli!”. La montagna è sua ma lui la considera di tutti. Ad osservarlo meglio, somiglia lui stesso ad un cirmolo: alto, grande e fiero.

Augusto Girardelli nel suo albergo a S. Giacomo sul Monte Baldo

Augusto Girardelli, una vista vissuta con entusiasmo (© foto Agh)

Giugno 14, 2013
di Agh
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I Suoni stonati delle Dolomiti

Suoni delle Dolomiti a Fuciade sopra Passo S. Pellegrino (foto momo)

La folla da stadio dei “Suoni delle Dolomiti” a Fuciade, sopra Passo S. Pellegrino (foto momo)

Questo è un post che farà storcere il naso. Parliamo (male) dei Suoni delle Dolomiti, una serie di eventi cultural-musicali che si svolge in montagna durante l’estate in vari luoghi del Trentino. La manifestazione é nata nel lontano 1995 con lo scopo di promuovere e far conoscere la montagna. Puntualmente strombazzata dai media come uno dei più gloriosi successi turistici del marketing, ha visto una crescente partecipazione di pubblico grazie anche a martellanti (e costose) campagne pubblicitarie.

Se la filosofia degli inizi si poteva in parte condividere, quando aveva ancora cioé una dimensione intimistica e circoscritta a piccoli avvenimenti cultural-sonori, con gli anni è degenerata in agghiaccianti raduni di migliaia di persone in alta quota. Con esiti talvolta grotteschi come quando, nel 2009, un improvviso peggioramento del tempo con forte vento e il blocco della funivia del Sass Pordoi, ha costretto gli organizzatori a soccorrere centinaia di persone a 3000 metri di quota con tanto di elicotteri e l’invio in forze del Soccorso Alpino (L’Adige, luglio 2009).

Le folle da stadio negli ultimi anni sono diventate una costante: migliaia di persone per il concerto di Uto Ughi nella foresta di Paneveggio (dentro a un parco naturale!), addirittura un’orda di 10.000 spettatori per Francesco De Gregori sui prati di Fuciade a passo S. Pellegrino, una bolgia infernale (anche di auto) per lo spettacolo di Goran Bregovic che ha intasato per ore la Val Canali, ancora dentro il Parco di Paneveggio – Pale di S.Martino. Ma che senso ha tutto questo? Per il concerto di Bregovic, l’Ente parco, che in teoria dovrebbe pensare a tutelare il parco e la natura, era addirittura l’organizzatore!

Incidenti di percorso a parte, business as usual, come si dice: quelli contenti dei “Suoni delle Dolomiti” che portano migliaia di persone in montagna, non sono pochi, soddisfatti gli albergatori, che a costo zero (paga Pantalone) riescono a riempire un po’ di camere, contenti i ristoratori e tutti quelli che, bene o male, riescono a raschiare un po’ di soldi dall’evento. Contenti naturalmente gli artisti che, ben pagati, si fanno ottima pubblicità esibendosi in un contesto naturalistico per loro inusuale come le magnifiche montagne dolomitiche. Soddisfatti infine i turisti che possono assistere gratis ad una serie di eventi e concerti. Tutto bene dunque? Non proprio.

La domanda è: cosa c’entrano con la montagna De Gregori, Bregovic o la Mannoia? Attirano gente d’accordo ma, se questo é l’obbiettivo, tanto vale organizzare sfilate di veline e tronisti, che di gente probabilmente ne attirano molta di piú. I numeri non sono tutto. C’è da chiedersi, anzitutto, se questo è veramente il modo migliore di far conoscere e valorizzare la montagna, la cui vera essenza é soprattutto, e forse varrebbe la pena ricordarlo, IL SILENZIO. Cosa resta alla mandria di turisti attirata in quota col pretesto del concerto del personaggio più o meno famoso? Ben poco, quasi niente. La montagna, in questi concertoni in quota, fa banalmente da sfondo. Pregevole scenografia relegata tuttavia a mero fondale, una “quinta” di lusso per una gran parte di turisti che abitualmente la montagna vera la vede col binocolo e che altrimenti, in mancanza del pretesto musicale, difficilmente vi metterebbe piede.

Anche «I Suoni delle Dolomiti» dunque sono parte della nefasta filosofia di chi vorrebbe la «Gardaland della montagna», dove attrarre masse di persone coi pretesti piú vari (e balordi): dai «parchi avventura» spuntati ovunque come funghi, ai concertoni rock, dalle giostre degli slittini meccanizzati su rotaia (Predazzo-Latemar) fino alla sfilata di camion di Overland dentro il parco naturale Adamello-Brenta. Tutto fa brodo.

Su quanto questi presunti eventi “valorizzino” la montagna, raccontiamo un aneddoto che ha tristemente rafforzato la nostra convinzione. Nell’agosto del 2008, verso le 8 di mattina in val di Pejo, stavamo salendo verso il rifugio Larcher m 2604. Notiamo subito un insolito affollamento di macchine al parcheggio sotto Malga Mare, e ci chiediamo il perché. Sul sentiero incrociamo una lunga processione di turisti che scende intirizzita. Cogliamo qua e là qualche commento di soddisfazione per il “bel concerto”. Quando vediamo tra i turisti che scendono a valle anche alcuni alti papaveri della Provincia, gente che non abbiamo mai visto in montagna in 40 anni di frequentazione dei monti, temiamo di capire. Scambiamo due chiacchiere e apprendiamo infatti che il Coro Sasso Rosso aveva cantato all’alba per “I Suoni delle Dolomiti”.

Continuiamo tuttavia a non comprendere per quale ragione i turisti scendano in massa di mattina, con un bel sole che annuncia una magnifica giornata. “Ma perché scendete così presto?” chiediamo incuriositi ad un gruppetto. La risposta é sconfortante: “E cosa facciamo su?”. Ecco, questa sarebbe la valorizzazione della montagna che costa ai contribuenti fior di milioni.

Giugno 2, 2013
di Agh
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Gli altoatesini sono (troppo) avanti

Rifugio “Schuster Hütte” in Val d'Ultimo

Il micro rifugio “Schuster Hütte” in Val d’Ultimo

Dopo la lunga discesa dalla cima di Hasenohr – Orecchia di Lepre m 3257 in Val d’Ultimo (Alto Adige), ci siamo fermati al caratteristico rifugio “Schuster Hütte” a quota 2310 metri. Il rifugio è in una posizione fantastica e panoramica, in cima ad un grande pascolo dove non ci sono strade, impianti di sci e neppure teleferiche. Solo un sentiero. Tutto è trasportato a spalla, con diversi viaggi, con delle grosse gerle.

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Paesaggi bucolici

E’ gestito da una simpatica famigliola: due coniugi verso la sessantina e i loro tre figli, uno adulto e due ragazzini. Il rifugio è stato ricavato da due piccolissime baite appaiate e col tetto a punta, con dei tavolacci di legno all’esterno. In una baita c’è una piccolissima cucina, nell’altra due panche con pochissimi posti a sedere. Ovunque ci sono addobbi di fiori, sculturine in legno scalpellate sommariamente, strane radici contorte con sembianze di volti e folletti. Ad ogni tavolo c’è un pezzo di legno con infilati un po’ di fiori d’erica e un rametto di cirmolo. Sembra quasi un rifugio da cartone animato, uscito da una fiaba. Una meraviglia!

Rifugio “Schuster Hütte”

Rifugio “Schuster Hütte”

A pochi metri dai tavoli, pascolano placidamente delle giovani mucche che rendono l’atmosfera ancor più agreste. L’atmosfera è rilassata e famigliare, tutti chiacchierano sottovoce e sono di ottimo umore. Davvero piacevole.

Atmosfera famigliare e rilassata

Atmosfera famigliare e rilassata, niente musica a tutto volume né bambini che urlano nelle sabbiere coi giochi di plastica

I gestori ci riconoscono (ci siamo salutati la mattina presto quando siamo passati mentre erano al lavoro alla malga sottostante), si fanno altre chiacchiere e ci chiedono, in buon italiano, com’è andata l’escursione, com’era il tempo, il panorama eccetera. Si meravigliano che abbiamo salito la cima e ancor più che siamo partiti da così lontano (io dal Trentino e la mia amica addirittura dal Veneto). Un ospite del rifugio, un tizio mai visto prima, si siede al nostro tavolo per offrirci un bicchiere di vino. Mangiamo del buon pane a fette con speck e poi un caffè fatto con la moka.

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La microscopica cucina

Insomma siamo andati via proprio contenti e soddisfatti, affascinati da questo micro rifugio dall’atmosfera cordiale e gentile. A volte si riesce davvero a fare turismo con pochissimo: due vecchie baite e ristorazione alla buona. Pensiamo anche che un rifugio così, da noi, sarebbe impensabile. Semplicemente perché delle baite così non esistono. Ma, ancor di più, sarebbe comunque impossibile perché l’italica burocrazia avrebbe raggiunto anche in quota gli improvvisati ristoratori per imporre leggi, regolamenti, norme UE e tutte le pastoie che paralizzano ormai qualunque iniziativa privata, specie quelle più originali e intelligenti come queste che sono una ricchezza del territorio e del turismo.

Non so perché ma a me è venuto in mente come è stata “valorizzata” Malga Stramaiolo, sull’Altopiano di Piné in Trentino, che vedete nella foto qui sotto. E mi veniva da piangere. Tutto quello che volete: altro mondo, altro contesto, altra cultura ma loro, gli altoatesini, sono davvero troppo avanti. Ma secondo voi, in una società massificata cosa cercano ancora i turisti, le differenze delle micro realtà come quelle altoatesine, o le malghe trasformate in assurde e demenziali palazzine?

Altopiano di Piné: l'ex Malga Stramaiolo a 1600 metri trasformata in orrida palazzina

Altopiano di Piné: l’ex Malga Stramaiolo “valorizzata”