“Anche lo spray al peperoncino anti orso che rappresenta il deterrente in assoluto più efficace non garantisce “rischio zero”.
Ecco il vero problema: non siamo disposti ad accettare l’idea per nessuna forma di rischio. Vogliamo il rischio zero. Ci illudiamo di poter controllare tutto. Eppure la vita stessa è un rischio continuo, anzi viviamo “sommersi” nei rischi quotidiani: quando camminiamo per strada, quando guidiamo nel traffico. Rischiamo ogni volta che facciamo qualcosa: quando lavoriamo (quanti sono i morti sul lavoro ogni anno?) o anche quando facciamo attività non strettamente necessarie come fare sport. Rischiamo quando scendiamo le scale, quando andiamo in bicicletta, coi pattini, o con gli sci. Rischiamo quando andiamo in treno, quando voliamo in aereo.
Rischiamo perfino quando mangiamo: ingurgitiamo cibi che ci fanno male alla salute e ci fanno ammalare, rischiamo quando beviamo alcol o fumiamo. Tutto è potenzialmente rischioso, pericoloso. Migliaia di incidenti, anche mortali, accadono dentro le nostre mura domestiche, nonostante le consideriamo il posto più sicuro. Quando andiamo in montagna possiamo prendere una storta, romperci una gamba, essere morsi da una vipera, essere attaccati da un cinghiale, da uno sciame di vespe, o scivolare in un dirupo mentre andiamo per funghi.
In montagna possiamo avere un infarto, un ictus, prendere un sasso in testa, essere travolti da una frana, da un albero, da un’inondazione, perfino fulminati durante un temporale. In inverno possiamo finire sotto a una valanga, perdere l’orientamento, essere intrappolati da una tormenta di neve, morire assiderati.
L’unico rischio, sia pure remotissimo, che non vogliamo ammettere, che non possiamo tollerare o accettare in alcun modo è, chissà perché, quello dell’orso.
Ovvero quello che non hai mai fatto nessun morto negli ultimi cento anni in Italia. Ogni anno muoiono migliaia di persone per incidenti e rischi che corriamo quotidianamente. Ma per l’orso, chissà perché, vogliamo comunque, anzi pretendiamo, esigiamo il “rischio zero”. Vogliamo stare belli comodi e tranquilli in una ideale quanto illusoria campana di vetro. Un (pessimo) politico della Lega di recente ha chiesto l’abbattimeno di un orso che ha predato un alveare.
Ma se è così, cosa li abbiamo reintrodotti a fare gli orsi in Trentino? Per fargli fare i pupazzi del marketing? Ed è razionale, sensato, ragionevole, logico, temere tanto un rischio così infinitesimale?
Particolare di S. Martino di Castrozza in un’immagine di Bing
Google Earth è, a mio giudizio, probabilmente il più bel software degli ultimi 15 anni. Ed è pure gratis! Di recente è stata resa disponibile la versione PRO, che in precedenza era a pagamento, e che ha varie potenzialità in più come, ad esempio, la realizzazione di filmati oppure di stampe ad alta risoluzione.
Dobbiamo dunque essere grati a Google per aver inventato questo software a dir poco geniale. Si può esplorare il mondo stando comodamente seduti in poltrona, ammirando ogni angolo del pianeta con foto aeree e satellitari. Una manna anche per noi escursionisti per studiare le escursioni in montagna. Specie per quelli che amano “ravanare” spesso fuori sentiero: con Google Earth si può infatti osservare il territorio dall’alto, con varie angolazioni, e farsi un’idea del percorso da affrontare.
Purtroppo però molti di noi si sono resi rapidamente conto che non sempre le immagini disponibili, specie in montagna, sono in alta risoluzione: la definizione infatti varia, anche di molto, secondo le zone. Alcune hanno una definizione “pazzesca”, con risoluzione di un metro dove si possono addirittura osservare le persone, altre zone invece hanno una qualità pessima. Da questo punto di vista le immagini migliori attualmente sono le Mappe Bing di Microsoft.
La buona notizia, anzi entusiasmante, è che si possono vedere le dettagliatissime immagini di Bing usando Google Earth. In che modo? Semplicissimo! Basta andare su questa pagina e scaricare il file http://ge-map-overlays.appspot.com/bing-maps-overlays-for-google-earth-combined.kmz (bisogna loggarsi) e poi aprirlo con Google Earth; quindi selezionare il layer di Bing e la vista “aerial”. La differenza salta subito all’occhio!
Qui di seguito riporto alcuni esempi: le immagini di sinistra sono di Google Earth, a destra quelle di Bing. Come si vede la risoluzione nel secondo caso è nettamente migliore. Inoltre Bing non è afflitto, come Google Earth, dalla presenza di nuvole che nascondono a volte parti di territorio.
Lago Moregna – Lagorai
Malga Cupolà – Lagorai
Castel Thun – Valle di Non
In realtà, Google Earth oltre a Bing può incorporare una infinità di layers di tutti i generi, da quelli meteorologici a quelli del traffico o del catasto e chi più ne ha più ne metta. Qui ad esempio c’è una collezione di layer per Google Earth dedicato alle mappe, da Open Street Maps in tutte le sue varianti a quelle di Nokia, da OpenTopoMap alle mappe cinesi o norvegesi e molte altre. Buon divertimento! 🙂
La piana di Campiò in Lagorai, con la nostra tragica truna!
Avete mai provato a bivaccare dentro un buco scavato nella neve a 2000 metri? Noi si! Quel che segue è il resoconto di questa agghiacciante (letteralmente) esperienza che abbiamo provato qualche anno fa. Chi vuole provare a cimentarsi troverà qui qualche utile indicazione. E’ una esperienza da provare almeno una volta nella vita (anche perché difficilmente ci sarà una seconda volta
La spianata a 2000 metri dove abbiamo fatto l’esperimento: nella freccia la posizione della truna
Cos’è una truna
La truna è un bivacco di emergenza ottenuto scavando una buca nella neve. E’ adatta ad ospitare una o più persone coricate. Per due persone ha dimensioni di circa 2 metri di lunghezza per 1 metro e mezzo di larghezza, l’altezza interna è di circa 60-80 cm. A differenza dell’igloo, che richiede una perizia costruttiva nient’affatto banale e con cui non ha nulla a che vedere, la truna è abbastanza semplice da costruire. Si tratta in sostanza di una trincea coperta con un telo impermeabile, sostenuto da un intreccio di rami, sci e bastoni e ricoperto di neve. La truna così costruita offre (dicono) efficace riparo dal vento e dal freddo, permettendo la sopravvivenza all’aperto, con opportuno equipaggiamento, anche in condizioni ambientali critiche e con temperature sottozero. La truna può essere scavata anche in un consistente accumulo di neve, in questo caso prende il nome di tana di volpe. Riportiamo dunque la cronaca del nostro tragico esperimento realizzato in Val Calamento, in Lagorai, a circa 2000 metri di quota nel gennaio 2007.
Truna degli alpini 1962 (foto Lorenzo Audisio)
Paesaggio da fiaba in Val Calamento
Intronati in truna – 27-28 gennaio 2007 Il posto prescelto è la meravigliosa piana di Campìo a circa 1900 metri di quota, sotto l’imponente piramide del Monte Croce m 2490, nel Lagorai centrale, i cui crinali già “fumano” furiosamente facendo presagire la tragica nottata. Abbiamo scelto questo posto in quanto abbastanza strategico: isolato ma non troppo, raggiungibile in un paio di ore di marcia, con la vicinanza del riparo di Malga Cagnon se qualcosa dovesse andare storto. Le nuvole viaggiano come treni, in alta quota, arrivando da nord e scomparendo rapidamente dietro le creste.
I crinali “fumano” furiosamente per il vento fortissimo in quota
In marcia verso Malga Bolenga
L’auto è zeppa di attrezzatura come per una spedizione nell’artico, mancano solo le slitte coi cani. Dopo una laboriosa preparazione degli zaini, partiamo da Malga Valtrighetta e risaliamo la Val Calamento in sciotti (sci da escursionismo n.d.r.), la traccia è già battuta da scialpinisti e ciaspolari: la temperatura è rigida ma non troppo ma soprattutto a bassa quota non c’è vento.
Si scarica l’equipaggiamento “artico”
L’indispensabile pala, masserizie varie e gli sci da escursionismo
In marcia verso Campìo
Il paesaggio è strepitoso con gli abeti imbiancati da mezzo metro di neve fresca. Dopo il tratto boscoso restiamo ammirati arrivando nella splendida radura di Malga Bolenga. Mini-sosta e via a salire fino a Malga Cagnon di sotto, semisepolta di neve. Ultimo strappo nel traverso verso nord e quindi, dopo aver attraversato il boschetto di larici, sbuchiamo nella piana di Campìo, il luogo prescelto per fare questa benedetta truna. Precisiamo che siamo entrambi novizi assoluti (io e lei, cinquant’anni a cranio) e le nostre conoscenze riguardo alla costruzione sono esclusivamente teoriche, cioè leggiucchiate su internet. Tuttavia non ci manca tosto l’ardimento, unito ad una insana incoscienza.
Il freddo è già pungente
In marcia verso Malga Cagnon di sopra
Facciamo una rapida ispezione per trovare il posto migliore, costeggiamo la piana di Campiò sul margine sud-est, la neve è alta circa 60-80 cm. Cerchiamo di capire qual è la posizione più riparata dal vento. Poiché il vento prevalente viene da nord, decidiamo che l’apertura sarà a sud, perciò nella notte il vento girerà malignamente ed esattamente da sud, vale a dire nella direzione peggiore. Ma questo è un destino ineluttabile al quale è perfettamente inutile ribellarsi.
La piana di Campio è già in ombra, sulla cima del Monte Croce i mulinelli di vento
Si inizia a scavare la truna…
Alle ore 16.30 precise imbracciamo la pala e cominciamo a scavare di buona lena (cioè IO scavo). Primo errore clamoroso: non sondiamo bene il terreno per cui, dopo aver rimosso un paio di metri cubi di neve, troviamo con disappunto uno scalino di 30 cm. Poco male, scaveremo nella direzione contraria. Ma, neanche farlo apposta, ecco un’altra bella gobba nel terreno dura come il marmo. A questo punto la truna ha la forma di una “banana”, cioè con le estremità in alto e il centro in basso, tipo amaca. Il freddo si fa già pungente e le tenebre calano inesorabili, siamo anche un po’ stanchini e non abbiamo nessunissima voglia di scavare un’altra truna ex-novo. Cerchiamo di livellare alla meglio il pavimento e rifiniamo le pareti: la neve però è troppo polverosa e si sfarina, coi muri che tendono a crollare.
Si mettono gli sci come traliccio per il telo
Le tragiche “pance” sul soffitto
Misuriamo la larghezza della truna coi 2 materassini appaiati: è ancora un po’ stretta, allarghiamo di 10 cm. Massì esgeriamo: facciamo 30. Ed è il secondo tragico errore: quando apriamo il telo, che pareva enorme, scopriamo con orrore che arriva a malapena ai bordi della truna. Di scavarne un’altra con le dimensioni giuste, come s’è detto, non se ne parla proprio. Usiamo il telo in larghezza così guadagnamo qualcosa, in compenso diventa corto sul lato lungo della truna (pasticcioni!). Cerchiamo di bloccare il telo alla bell’e meglio con la neve, ma essendo farinosissima e polverosissima ce ne vogliono quintali. Per fortuna abbiamo un secondo piccolo telo, un poncho apribile che usiamo come “prolunga”. Facciamo un traliccio coi bastoni e gli sci, mettiamo i teli e scopriamo con raccapriccio che il tetto sotto al peso della neve rischia il crollo.
Cerchiamo di bloccare meglio il telo sui lati spalando montagne di neve. Sulla copertura superiore solo uno strato leggero, perché al di sotto si formano delle “pance” preoccupanti. La truna è troppo grande, i teli corti, chiuderla non si può perché la neve è troppo farinosa e non sta in piedi. Pazienza: “Dormiremo nel buco aperto!” ci diciamo con fierezza, in realtà vagamente preoccupati e simulando allegria con risate nervose. Mettiamo gli zaini all’entrata a mo’ di porta, come parziale riparo. Alle 18.39 la pseudo truna è finita: i teli svolazzanti la fanno somigliare ad una tenda di profughi: stracci dappertutto, dentro un casino allucinante tra zaini, maglioni, thermos, ghette, calzini, braghe, guanti e sacchi a pelo buttati alla rinfusa.
La truna è pressoché finita: notare la bottiglietta di Teroldego “in fresca” nella neve
Il casino allucinante dentro la truna
Tiriamo fuori i materassini “autogonfiabili” (maddeché), posizioniamo le stuoie e poi i sacchi. Fa già un freddo spaventoso e ci rifugiamo dentro la truna dando tremende zuccate sul soffitto, che nel frattempo si è solidificato per il gelo. Degli 80 cm originali, il soffitto per via delle pance s’è abbassato in altezza a soli 40 centimetri, e siamo costretti a strisciare dentro a sobbalzi come trichechi. Di mangiare non se ne parla perché nessuno ha voglia, non accendiamo neppure i “lumini da morto” (quelli rossi per le tombe, una brillante idea di Agh) che avevamo in dotazione per scaldare e rallegrare l’ambiente. Diamo fondo alle ultime sorsate di tè caldo nel thermos e buonanotte, perfettamente e tragicamente consapevoli di avere davanti una lunga e dura nottata.
Calano le tenebre sulla nostra tragica ghicciaia
Inutile farla tanto lunga, è stata durissima. Particolarmente spaventoso, per tutta la notte, il morso del freddo ai piedi, che parevano rosicchiati dai topi. Il vento gelido entrava con violente folate buttando dentro badilate di neve ghiacciata. Passiamo una nottata da incubo: gobbe moleste ci si conficcano nella schiena per via del pavimento sconquassato.
Per ben due volte mi sveglio che mi pare di avere un piede solo: l’altro non lo sento più! Per fortuna bastano delle smanazzate per ripristinare la circolazione. Cerchiamo di dormicchiare in qualche modo quando, dopo un periodo che pareva un’eternità, guardiamo l’orologio: sono le 8! Che avete capito, le otto di sera! Erano passate sole due ore. Momenti di sconforto. Altra sgradevole sorpresa: nel tentativo continuo di svoltolarsi per trovare una posizione meno scomoda, siamo presi continuamente da crampi, dal che capiamo che l’isolamento a terra è tutt’altro che perfetto. Guai ad allungare il braccio per cercare di massaggiarsi un piede o una gamba, polpacci e cosce si bloccano immediatamente in dolorose contrazioni. Dalla truna nel buio provengono a intervalli quasi regolari, per via dei crampi, degli “aaaarrghhh!” per quasi tutta la notte. Una notte agghiacciante, alla lettera. Si dorme male, malissimo, per brevi periodi, risvegliati dalle palate di neve gelata in faccia che il vento, manco lo facesse apposta, schiaffa dentro appena si piglia sonno.
Si guarda con pena infinita l’orologio, il tempo non passa mai. Tra una dormicchiata e l’altra “doppiamo” la mezzanotte con la stessa soddisfazione che deve aver provato Magellano doppiando il leggendario Cape Horn. Arrivano le 2, poi le 3, le 4, il sonno continuamente interrotto dall’ululato pauroso del vento e dai teli che sbatacchiano rumorosamente. Poi in una botta, forse per lo sfinimento, arrivano le 6. Resistiamo ancora eroicamente fino alle 7, nella vana attesa di un raggetto di sole per mettere fuori il naso. Macché, verso est una muraglia di nuvole impedisce il sorgere del sole sulla nostra tragica ghiacciaia.
Finalmente albeggia, il supplizio sta per finire…
Gli “orsi” escono dalla tana in condizioni pietose…
Alle 8, impossibile resistere oltre, usciamo dalla disperazione. Tremenda è la vestizione con altre zuccate sulle “pance” del soffitto, per rimettere pantaloni e soprattutto scarpe. Quelle di Ansiak sono letteralmente due pezzi di ghiaccio, e i suoi piedi esattamente il doppio della sera prima. Col fornelletto e il lumino da morto cerchiamo di ammorbidire la tomaia, ma è un’impresa vana. Dopo molti tentativi, finalmente un piede entra nella scarpa accompagnato da un urlo soffocato. Nel tentativo di allacciare i lacci gelati Ansiak dà un poderoso tirone eee…. straaaappp! Le resta il laccio in mano. Attimi di sgomento. Si provvede alla bisogna con un rappezzo di spago trovato in fondo ad uno zaino. Grazie al geniale suggerimento di AGH di usare la pala come calzascarpe, entra miracolosamente con un grido anche l’altro piede.
La bottiglietta da mezzo litro di Teroldego che abbiamo lasciato fuori dal bivacco, e che in teoria doveva servire per il brulè la sera prima, è un blocco di ghiaccio. I lacci delle scarpe sembrano fil di ferro e stanno su dritti come per uno spavento; facciamo la “foto simbolo” della gita.
La foto simbolo: anche le scarpe non sembrano aver passato una gran nottata
Finalmente un po’ di sole!
Decidiamo di sbaraccare e di raggiungere la vicina Malga Cagnon di Sopra, dove potremo sistemare meglio i nostri stracci e le varie masserizie. Ansiak ha uno zaino enorme e sembra una straccivendola in trasferta. In mattinata per fortuna esce un sole meraviglioso e la temperatura sale di brutto, facciamo l’ultima rampa in sauna perché ancora imbacuccati come palombari.
La piana di Campìo dove è avvenuto il tragico esperimento di sopravvivenza
Arrivo a Malga Cagnon
Alla malga finalmente ci rifocilliamo: siamo ancora a digiuno, diamo di piglio al Teroldego, che nel frattempo è diventato granita, e agli involtini di pollo. Il ritorno in sci avviene senza particolari problemi, a parte una “seduta a strascico” per frenare su un costone, e un volo con inginocchiata di Ansiak che nella caduta rovinosa rompe addirittura una scarpa (!), per fortuna non in modo irrimediabile.
“Mamma orsa” nel suo iconfondibile stile….
L’immancabile “pelle di leone” con groviglio inestricabile di sci e bastoni
Insomma è andata bene: un’esperienza dura che però ci ha permesso di capire, anzi di sperimentare, che con un riparo minimo si può sopravvivere all’aperto in pieno inverno con temperature molto rigide. Secondo una nostra stima nella nottata, erano i famosi Giorni della Merla, la temperatura è scesa ad almeno -18°.
Discesa per la Val Calamento
Quella che nelle intenzioni doveva essere una confortevole nottata in truna si è tramutata, non volendo, in una vera e propria prova di sopravvivenza. Se in futuro ci dovesse capitare un bivacco forzato in qualche modo sapremmo cavarcela, soprattutto psicologicamente. Resta la curiosità di sapere come sarebbe stata quest’esperienza in una truna realizzata a regola d’arte. Sarà per la prossima volta. Forse
Forse non tutti sanno che la nota casa editrice Kompass offre un comodo servizio gratuito di cartografia online.
Si tratta di una cartografia concepita per l’uso online: non quindi la banale riproposizione di quella cartacea, ma di una mappa digitale multiscala, ovvero in grado di mostrare le informazioni a seconda dell’ingrandimento, favorendo così facilità e immediatezza di lettura.
La copertura della sentieristica è ottima per tutto l’Arco Alpino meridionale, soprattutto Trentino – Alto Adige, Veneto, Lombardia, Piemonte, ma si estende in parte anche ad altre regioni montuose italiane. L’Austria è coperta per intero, la Svizzera in parte. La cartografia generale si “appoggia” a quella di OpenStreetMap.
UPDATE agosto 2020 Purtroppo Kompass ha rimosso la cartografia online gratuita: al suo posto offre una versione ridotta di base (per la versione completa bisogna pagare), abbastanza buona ma limitata, per esempio i sentieri non sono segnati in rosso…
La mappa Kompass è stata rimossa anche dalla app MyTrails, per la quale non è più disponibile e il link non funziona.
Mappe alternative a Kompass Online per fortuna esistono ottime alternative, gratuite, con cartografie basate su OpenstreetMap, eccole:
Mytrails, un’ottima app gratuita per l’escursionismo
Come usare lo smartphone per l’escursionismo. Dopo molte prove ed esperimenti, segnaliamo l’ottima app MyTtrails, forse la soluzione “definitiva” per chi vuole usare cartografia gratuita senza troppe complicazioni, con una app duttile, comoda, leggera, funzionale e che consuma poca energia lavorando in background. Il tutto spendendo pochi euro. L’app è disponibile anche in versione gratuita di prova, con qualche limite nella dimensione delle carte per il download. Cosa ha di speciale MyTrails? In pratica, è in grado di visualizzare un gran numero di mappe: da Google Maps a Bing, da varie mappe basate su Osm a moltissime altre, incluse immagini aeree e satellitari. Ogni mappa può essere scaricata per l’utilizzo offline. Perché le mappe online, come si sa, non sempre sono disponibili in montagna per la mancanza di segnale, inoltre la connessione dati è altamente energivora ed ha il grave inconveniente di esaurire rapidamente la batteria dello smartphone.
MyTrails è probabilmente la migliore soluzione attuale per usare della buona cartografia gratuita per l’escursionismo, costa pochi euro e li vale tutti.
Un piccolo plugin permette anche di spedire via sms la propria posizione GPS.
L’app permette anche il caricamento e la registrazione delle tracce GPS. MyTrails è scaricabile per Android dal solito Google Play.
Inoltre, conoscendo l’url dei servizi WMS esterni, si possono aggiungere mappe a volontà, come ad esempio mappe lidar, ortofoto, o mappe storiche come quella del Trentino.
Il sindaco di Vallarsa ha avuto una brillante idea: mettere un pedaggio sui sentieri del Pasubio. “Uno o due euro non sono nulla per le tasche del turisti” dice il primo cittadino Geremia Gios, che aggiunge: “Per noi invece, l’entrata sarebbe sufficiente per aiutarci a fornire importanti servizi”.
Articolo su l’Adige del 13 settembre 2014
Non è chiaro tuttavia quali sarebbero questi “importanti servizi”, qualunque cosa siano e ammesso che i turisti li vogliano. Dall’operazione tornelli si è preventivata un’entrata per il Comune di circa 40.000 euro l’anno. Ma quanto costerebbe mettere i tornelli (quanti? e dove?), la manutenzione, la segnaletica, il personale di sorveglianza sul percorso a caccia dei furbi senza biglietto?? E quanto avanzerebbe, ammesso avanzi qualcosa, per finanziare gli “importanti servizi” immaginati dal sindaco? Personalmente rifiuto questo furore tributario che porta a tassare ogni cosa pur di fare cassa, la montagna e perfino la memoria dei caduti della Grande Guerra. Ma perché? L’idea di mettere i tornelli in montagna è avvilente, per non parlare delle guardie pronte a infliggere salate multe ai trasgressori. Insomma il peggio della città trasportato in alta quota. Se questa iniziativa prenderà piede, per quel che mi riguarda depennerò immediatamente il Pasubio come mèta delle prossime escursioni. E sono sicuro che molti altri faranno altrettanto.
Avanzo un’idea: se è un problema di risorse, anche se non è evidente per far cosa, perché non provare almeno a pensare ad un sistema di donazione volontaria? Basterebbe un piccolo punto informativo all’inizio del sentiero: sono sicuro che le offerte non mancherebbero se lo scopo è chiaro e non il solito espediente per tosare gli escursionisti col pretesto del Centenario. Per una volta, proviamo a rendere partecipe il visitatore anziché imporgli il solito demenziale e banale taglieggiamento col tornello, la gabella, le guardie e le multe.
Se i soldati che hanno combattuto sul Pasubio sapessero che sono morti su queste montagne perché i posteri potessero metter dei tornelli, si rivolterebbero nella tomba.
Qualcuno ricorderà il film “Rambo”, che lanciò Sylvester Stallone nel firmamento cinematografico mondiale. A parte qualche esagerazione e americanata, era un gran bel film d’azione con una storia semplice ma potente. Lo sceriffo di una tranquilla cittadina, un omone grande e grosso e molto sicuro di sé, cerca di allontanare con modi spicci e arroganti un vagabondo. Questi in realtà è un reduce del Vietnam specialista in guerriglia: sfuggito all’arresto e nonostante una serrata caccia all’uomo nei boschi, scatenerà un’ira d’Iddio mettendo letteralmente a ferro e fuoco la città con morti e feriti.
Ebbene i nostri amministratori, alle prese col caso dell’orsa Daniza e fatte ovviamente le debite proporzioni, rischiano di fare la figura dello sceriffo arrogante e un po’ capoccione (magistralmente interpretato da Brian Dennehy), che non immagina nemmeno lontanamente in quale guaio si stia cacciando.
Lo sceriffo rude e arrogante nel film “Rambo”
La storia del perseguitato solo contro tutti, che si ribella all’ingiustizia, è un soggetto perfetto, infatti il film ebbe un successo enorme. Nel caso di Daniza-Rambo però, l’orsa che sfugge ostinatamente alla cattura non è sola: ha dietro di sé migliaia di persone che hanno scatenato una ribellione mediatica mai vista in Italia. La storia di mamma orsa che difende i suoi due cuccioli è irresistibile e nessuno riesce a capire la logica ottusa della cattura, l’abuso di potere dell’uomo sulla natura e gli animali. Tutti capiscono invece il malcelato calcolo elettorale, e peggio ancora il tentativo degli amministratori di “pararsi il didietro”, di scaricare cioé sull’animale la responsabilità dell’accaduto, che ha il solo torto di aver difeso i suoi cuccioli da un intruso. La pretesa di motivare la cattura con la “tutela della sicurezza dei cittadini” appare pretestuosa se si considera che ad ogni stagione venatoria in Trentino si lamentano decine di incidenti, con feriti e in qualche caso, purtroppo, anche morti. Sulla caccia però, guarda caso, non si interviene mai perché la lobby dei cacciatori porta voti. In ogni caso non c’è partita: in tutti i sondaggi apparsi a decine sulla rete, il 90% sta con Daniza. Per la prima volta in Italia un’amministrazione pubblica si trova ad affrontare una rivolta sui media davvero incredibile per dimensioni e dalle conseguenze imprevedibili. Migliaia di mail di protesta sono piovute negli uffici della Provincia Autonoma di Trento, quindi nelle aziende trentine con minacce di boicottaggio commerciale. L’azienda trentina Abate Nero Trentodoc, che produce un eccellente spumante, ha iniziato coraggiosamente a pubblicare le lettere di protesta sulla sua pagina Facebook.
Daniza coi suoi due cuccioli
L’eco della vicenda ha travalicato i confini regionali per finire su tutti i giornali nazionali e perfino all’estero. L’hashtag #iostocondaniza è entrato nella “top ten” su Twitter. Una petizione in lingua inglese, con firme da tutto il mondo, ha superato quelle italiane fiorite un po’ dappertutto online e si appresta a raggiungere trionfalmente la cifra record di 100.000 firme. Un fenomeno senza precedenti. Daniza ha 19 anni ed è uno dei primi orsi importati in Trentino dalla Slovenia per il ripopolamento della specie autoctona ormai in estinzione, avviato col progetto “Life Ursus“. La sua cattura e reclusione a vita in un recinto, coi cuccioli lasciati al loro destino ma con poche speranze di sopravvivere, rischia di sancire il clamoroso fallimento del progetto che pure era stato riconosciuto, anche a livello internazionale, come un progetto difficile e coraggioso per favorire la sopravvivenza del più grande predatore nelle Alpi.
L’immagine dell’orso utilizzata nella pubblicità e nel logo del Parco Naturale Adamello Brenta
Certamente chi deve decidere in Provincia non si trova in una posizione facile. Nessuno poteva prevedere una rivolta popolare di queste dimensioni. L’esito della vicenda ora è incerto: la caccia all’orsa è ancora aperta ma Daniza non si fa catturare (o non la vogliono catturare per riflettere meglio sul da farsi). Sembrerebbe tuttavia ragionevole e opportuna una dignitosa marcia indietro con il ritiro dell’ordinanza di cattura, come già peraltro timidamente accennato da un assessore. Prima che la battaglia diventi una Caporetto. Prima che l’immagine bucolica (e un po’ fasulla) del Trentino “naturale”, costruita faticosamente in anni di marketing e pubblicità, finisca irrimediabilmente in pezzi davanti all’opinione pubblica.
Anche noi, nel nostro piccolo, celebriamo la ricorrenza del Centenario della Grande Guerra, offrendo ai nostri lettori una selezione di oltre 100 escursioni “belliche”. Si tratta di itinerari scelti tra i più significativi, realizzati tutti di persona in territorio trentino (e qualcuno in Veneto), tutti pubblicati sul forum GIM – Girovagandoinmontagna.it.
Sono percorsi di varia difficoltà e lunghezza, spesso fuori sentiero sfruttando i vecchi camminamenti militari. Le zone sono quelle più note tra Dolomiti, Adamello, Cevedale, Garda, Lagorai e Pasubio. La maggior parte degli itinerari sono nella selvaggia catena del Lagorai, che era linea di fronte nel Trentino orientale.
Caverna del battaglione Arvenis sul Cardinal versante sud: vista sul Vanoi
Uno dei percorsi più spettacolari, e anche più impegnativi poiché si svolge pressoché totalmente fuori traccia tra precipizi e baratri spaventosi, è senza dubbio la traversata Cauriol – Cardinal – Busa Alta Italiana – Busa Alta Austriaca. Una “alta via” unica nel suo genere che purtroppo pochi conoscono perché priva di sentieri, attualmente anche piuttosto pericolosa perché molti camminamenti sono franati, ma che meriterebbe una valorizzazione adeguata perché si tratta di un itinerario entusiasmante e assolutamente grandioso, che fa capire tutta la follia della guerra combattuta in luoghi tanto impervi e difficili quanto di una selvaggia bellezza.
Di seguito la mappa con le oltre 100 escursioni, in continuo aggiornamento e “work in progress”, dalla quale si può accedere alle relative relazioni sul forum girovagandoinmontagna.it.
La mappa con le escursioni sui sentieri della Grande Guerra, clicca sull’immagine per aprire la mappa
Teli di plastica delle serre per le coltivazioni di fragole e cave di porfido
Otto anni fa ho deciso di abitare a Piné, un altopiano bellissimo tra laghi e montagne, alle porte del mio amato Lagorai. Mi sembrava di aver trovato un piccolo paradiso terrestre. In questi anni però ho potuto assistere con dolore ad una distruzione sistematica del paesaggio che ha quasi dell’incredibile. Una lunga serie di interventi scellerati ha devastato e sta devastando le bellezze del Pinetano un po’ ovunque.
Al posto del verde, una insulsa spianata di porfido. Dietro, il Dosso di Miola quasi interamente disboscato
Le rive del Lago di Serraia, la “perla dell’Altopiano”, sono state progressivamente disboscate: il piccolo ma magnifico parco di grandi alberi di oltre mezzo secolo della riva meridionale è stato raso al suolo per fare una insulsa spianata di porfido senza un filo d’ombra. Anche le bellissime piante che ombreggiavano la terrazza alberata con vista sull’Imbarcadero, uno degli scorci più suggestivi, sono state abbattute per fare posto… ad una rotatoria!
Da 4 anni consecutivi il lungo lago è ridotto ad un cantiere perenne
Il Lago di Serraia da 4 anni è ridotto ad un cantiere perenne che si presenta puntualmente ad ogni estate nel suo massimo squallore: mi chiedo come facciano a venire ancora i turisti, a passeggiare sul lungolago senza più un albero, tra ruspe, camion, reti di plastica, mucchi di ghiaia e inferriate. Un “harakiri” turistico che lascia stupefatti. Ma coloro che vivono di turismo sull’Altopiano non hanno nulla da dire? Ho parlato con alcuni villeggianti che sono tornati dopo qualche anno di assenza, erano ammutoliti, sconvolti dalla distruzione del lungolago: “Era così bello prima, ma perché?” chiedevano sconfortati. Il cosiddetto Servizio Provinciale del ripristino ambientale e valorizzazione della natura“ (sic!) si è accanito anche sulla sponda sud orientale, riempita addirittura di macigni per creare una demenziale scogliera che non c’entra nulla col contesto, ed è orrenda non solo alla vista ma anche pericolosa coi suoi sassi affilati. Ma perché? Qualcuno doveva smaltire degli inerti? Ma è una spiaggia o una discarica? O forse non si sapeva come spendere tutti i quasi 600.000 euro dell’opera pattizia?
La demenziale scogliera di macigni
Poco a monte del Lido sono stati tagliati i maestosi abeti sulla riva che donavano ombra e frescura in una zona del lago tra le più belle. Al loro posto è stata realizzata una banale spiaggetta con ghiaino che ovviamente non usa nessuno: chi si fa cuocere il cranio in estate sotto il sole? Anche il bel bosco spontaneo del biotopo della riva orientale, dove la sera era possibile ammirare i caprioli che scendevano sulla riva protetti dalla vegetazione, è stato in gran parte tagliato, come il canneto, sconvolgendo inutilmente un habitat prezioso per la fauna.
Tagliati i maestosi abeti per fare una ridicola spiaggetta di ghiaino
Il taglio demenziale che ha distrutto uno degli angoli più belli del lungolago
Altri squarci nel bosco sono stati aperti a nordest del lago, gabellati anch’essi come “riqualificazione ambientale”, locuzione sinistra che è ormai diventata sinonimo di scempio sicuro. Un turista, osservando sconsolato lo sterminio di alberi sul costone, mi ha chiesto se stavano costruendo una pista da sci! Ora è in progetto un’assurda colata di cemento proprio sul lungolago, per fare il mostro edilizio della nuova biblioteca sovracomunale.
Lo squarcio nel bosco: un turista credeva fosse una pista da sci!
Classico esbosco “alla trentina”: si porta via il legno pregiato e quello di scarto è lasciato sul posto, che diventa così impraticabile. Perfino sui sentieri! La foto è stata scattata sulla strada forestale che dalla Valle del Rio Negro porta a Faida
Questo massacro sistematico del paesaggio pinetano purtroppo non è limitato al lago di Serraia ma è diffuso un po’ ovunque. I meravigliosi boschi di Piné sono spesso uno sfacelo dove regna l’incuria più assoluta: ci sono schianti che nessuno rimuove da anni, anche sui sentieri. Eppure, a pochi metri da centinaia di alberi crollati o secchi, si continua a tagliare come forsennati alberi maestosi e sanissimi di 50-60 anni, meglio ancora se vicino a strade e forestali, dove la legna è più “comoda” e quindi costa meno. Si porta via il legno pregiato e si lasciano sul posto montagne di ramaglie e il legname di scarto che rendono impraticabili le zone esboscate, che nel giro di un paio d’anni sono invase da rovi e cespugli.
Tipico bosco del pinetano (sud di Faida). Gli schianti sono migliaia ma nessuno li rimuove da anni
Taglio dei grossi pini silvestri nel piccolo parco di fornte allo Chalet dela Mot
Anche la piccola pineta di fronte allo Chalet della Mot è stata inutilmente massacrata: i grandi alberi di oltre cinquant’anni che ingentilivano il paesaggio sono stati abbattuti, il vento ha poi completato l’opera sradicando gli alberi superstiti grazie ai varchi aperti nella vegetazione. Geniale! Quella che era una delle più belle strade del Trentino tra Valt e Baselga, un angolo di “Canada” con boschi lussureggianti dove i turisti si fermavano volentieri al fresco o andavano per funghi, non esiste più: è stata desertificata da disboschi a più riprese. Ora è ridotta ad uno squallido stradone dove spicca per bruttura la spettrale voragine nel bosco dove sono state riversate le tonnellate di fango della frana di Campolongo.
Qui c’era un bosco meraviglioso, ecco com’è adesso
Lo spazio liberato dalle “fastidiose” pinete è poi puntualmente occupato dalla ferraglia e dai teli di plastica delle serre per le coltivazioni di fragole, che avanzano ovunque ad imbruttire ogni angolo di paesaggio. Le fragole “trentine” sono coltivate fuori terra, infilate direttamente nei sacchetti di terriccio e fertilizzanti provenienti dall’Olanda: l’incantevole frazione di Prada, un tempo nota per i suoi prati ameni, è ormai circondata dalle serre, in un paesaggio desolante con chilometri di teli, montagne di sacchetti di plastica lungo le strade di campagna, cumuli di terriccio esausto, pali di ferro, tubazioni di plastica, rottami vari.
Le serre avanzano ad imbruttire ogni angolo di paesaggio (Valle del Rio Negro, Faida)
La misconosciuta forra del Rio Negro nei pressi, che sarebbe una fantastica attrazione turistica a pochi chilometri da Baselga, è degradata ad una discarica: nel torrente ci sono bidoni, plastiche varie, perfino copertoni di camion e centrifughe di lavatrici. Le serre assediano perfino il celebre “Laghestel”, il primo biotopo del Trentino che fu istituito, evidentemente con lungimiranza d’altri tempi, nel lontano 1971 proprio dal Comune di Baselga di Piné.
La splendida forra del Rio Negro ridotta a discarica
Le serre per le coltivazione di fragole “trentine”: coltivate fuori terra direttamente nei sacchetti di terriccio e fertilizzanti provenienti dall’Olanda
Le coltivazioni di fragole sono fin dentro i biotopi (Laghestel)
Un naturalista mi ha detto che il 90% delle specie tipiche di palude è andato perduto a causa del carico antropico circostante. Ovviamente non ce l’ho con chi coltiva le serre arrotondando l’economia famigliare, ma possibile che l’ambiente non sia minimamente considerato da nessuno, men che meno dall’amministrazione? Ultimo scempio in ordine di tempo: la magnifica pineta del Doss dela Mot, attraversata da uno splendido sentiero che conduceva ai ruderi del misterioso e antichissimo castelliere (tra i più antichi del Trentino), è stata sventrata dall’Asuc di Miola con un terrificante disbosco per “cambio di coltura”. Si farà un’area agricola “di pregio” (sic) per gli allevatori. La meravigliosa passeggiata, le postazioni di tiro con l’arco e il sentiero coi cartelli realizzati dagli scolari di una scuola media che illustravano la suggestiva “leggenda medievale di Jacopino”, sono stati travolti e rasi al suolo senza tanti complimenti.
La meravigliosa pineta nei pressi del Doss dela Mot è stata distrutta per “cambio di coltura”
Pare che l’amministrazione pinetana abbia pensato un folle progetto per “ricreare il paesaggio degli anni ‘20”: cioè tagliare il bosco per fare prati. Ma che senso ha sconvolgere il territorio per ricreare quei paesaggi artificiali che erano la conseguenza di una società agricola che oggi è scomparsa da un secolo? C’è poi questa specie di ossessione, questo luogo comune ripetuto a pappagallo da molti anziani ma anche da qualche giovane che ha orecchiato il concetto, del “bosco che ti entra in casa” o che “si mangia i pascoli”. Ma se il bosco avanza e si riprende i suoi spazi naturali, questo accade proprio perché i pascoli sono stati abbandonati! Distruggere il bosco vagheggiando un improbabile ritorno alla pastorizia -ma di chi?- è non solo illusorio ma anche senza senso.
Lo stato pietoso dei boschi: nessuno pulisce gli schianti da anni, quasi ovunque regna l’incuria e il degrado
Forse sarebbe il caso di riflettere anche sui contributi per fare nuovi allevamenti di dimensioni “padane” che vanno a gonfiare ulteriori diseconomie senza possibilità di ritorno, esattamente come per gli impianti di sci. Imprese che stanno in piedi finché ci sono i finanziamenti pubblici. Nel frattempo si consuma territorio, si distrugge paesaggio. A beneficio di chi?
La spiaggia del Lago di Serraia prima e dopo la “valorizzazione”
Piné sta distruggendo alacremente quello che è (era?) il suo bene più prezioso: il paesaggio e l’ambiente. Sorge allora spontanea una domanda: si è deciso forse di rinunciare al turismo? Si può certamente decidere di tagliare le pinete per fare serre, capannoni, cave, discariche di inerti eccetera. Ma in un piccolo territorio come quello pinetano non si può mettere tutto e il contrario di tutto: il biotopo e le serre delle fragole, le pinete e le cave di porfido, i capannoni e le passeggiate. Continuare a devastare il paesaggio e l’ambiente, somiglia molto a chi sega ostinatamente il ramo su cui è seduto.